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Da Tucidide a Camus: le malattie raccontate nella letteratura

Ogni tipo di morbo imperversando nella storia è diventato luogo ricorrente per gli autori più importanti

GILBERTO SCUDERI
2 minuti di lettura

MANTOVA. Qualche nota di cultura in margine al coronavirus. Per dire che questi microscopici malviventi - i virus - per campare hanno sempre dato problemi all’umanità, dall’antichità a oggi (edomani). Però alla fine noi, più intelligenti di loro, li abbiamo sempre sconfitti o tenuti a bada. Ogni tipo di morbo, imperversando nella storia, è diventato luogo ricorrente nella letteratura. Nei romanzi d’invenzione: per esempio “La peste” di Camus o “L’amore ai tempi del colera” di García Márquez. A volte gli scrittori hanno trasformato la realtà storica in fiction: è il caso delle pesti del 1348 nel “Decameron” di Boccaccio e del 1630 nei “Promessi sposi” di Manzoni. C’è poi il morbo annotato dai cronisti, come i mantovani Andrea da Schivenoglia nel ‘400 e Giovanni Battista Vigilio nel ‘500 che raccontano le pestilenze loro contemporanee. Una terza via fu intrapresa da Daniel Defoe nel “Giornale dell’anno della peste”, il 1665 a Londra: lo scrittore la descrisse in prima persona nel 1722, quand’era over 60: non potendola ricordare nei dettagli, poiché nel 1665 era un bambino di cinque anni, usò l’escamotage del finto testimone oculare che espone la verità dei fatti. In inglese la peste è the plague, la piaga, il flagello.

Indietro nel tempo ci sono le pesti raccontate da Tucidide nella “Guerra del Peloponneso” (peste di Atene del 430 avanti Cristo, Tucidide fu contagiato), da Lucrezio (nel “De rerum natura”), da Ovidio (peste di Egina nelle “Metamorfosi”), da Paolo Diacono (peste di Giustiniano nella “Storia dei Longobardi”) e molti altri. Lo scrittore americano Edgar Allan Poe lesse la prima versione dei “Promessi sposi” (1827) nella traduzione inglese pubblicata a Washington del 1834, “The Betrothed”, e la recensì nel 1835 sul “Southern Literary Messenger” di Richmond, Virginia, spendendo parole per «l’orrore della peste che infuriò a Milano».

Tenendo a mente la peste manzoniana, Poe scrisse due racconti: “King Pest” nel 1835 e “La maschera della morte rossa” nel 1842. Più di un secolo dopo, nel 1947, Camus pubblicò “La peste”: l’epidemia - metafora del male, del nazismo - scoppia a Orano, nell’Algeria francese; da Parigi arriva l’ordine di chiudere la città con un cordone sanitario. Il “Giornale” di Defoe riporta diverse ordinanze: proibiti gli assembramenti, sorveglianza in birrerie e caffè, vietati banchetti e spettacoli, divieto di circolazione di accattoni e vagabondi nella City. Estremamente severe le punizioni per chi contravviene. Warning, attenzione ai ciarlatani: reduce dalla peste di Napoli, arriva a Londra una gentildonna italiana «che conosce un metodo segreto per prevenire il contagio». Nell’estate 1665 Samuel Papys, nel suo “Diario”, perlopiù spassoso ma non in questo caso, lamenta le strade di Londra deserte: «Due negozi su tre sono chiusi». In genere «si corre il rischio di fermarsi a conversare con persone che hanno già addosso il malanno».

Quasi una macabra facezia una sua annotazione sulla moda: finita l’epidemia, per paura dell’infezione, nessuno vorrà portare parrucche, «i capelli potrebbero essere stati tagliati dalle capocce degli appestati», scrive Pepys. Profetico, visionario, fu Jack London nel 1912 scrivendo “The Scarlet Plague” (La peste scarlatta), una pandemia letale che lo scrittore americano immagina colpisca l’umanità nel 2013 (in pratica oggi), facendo piombare la California ai primordi della civiltà, all’inciviltà: uno dei pochi superstiti racconta ad alcuni ragazzi selvaggi come l’umanità sia andata incontro alla distruzione. Se Camus scrisse “Il primo uomo” - romanzo autobiografico incompiuto, uscito postumo nel 1994 - Mary Shelley nel 1826 pubblico “L’ultimo uomo”, l’unico sopravvissuto a una peste. Anche Virgilio, nelle Georgiche, parla di peste, un episodio realmente accaduto nel Norico, provincia romana tra le Alpi orientali e il Danubio. Il virus non colpì gli esseri umani ma gli animali: «Hic quondam morbo», il cielo si infettò, l’aria divenne cattiva, l’autunno divampò e gli animali domestici e selvatici morirono, le acque si contaminarono e i pascoli marcirono. Non c’erano né antibiotici né vaccini. —


 

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