L'anno di Dante: il colore è cultura e contesto, andiamo alla scoperta delle tonalità
Cosa avrebbe pensato un uomo del Medioevo di "Inside Out", film di animazione del 2015? E dell'abbigliamento degli esistenzialisti francesi?
Jeffrey Schnapp, Corrado Confalonieri
MANTOVA. In un futuro lontano un gruppetto di studenti si chiederà perché in quell’antichissimo film “Inside Out” Tristezza portasse un maglione a collo alto, avesse un po’ di “ciccia” e soprattutto fosse blu. Chissà se dovrà faticare per avere notizia di come si vestivano gli esistenzialisti francesi, di chi fosse Bridget Jones; chissà se l’espressione I feel blue, in inglese, vorrà dire ancora “mi sento triste”, chissà se l’inglese si continuerà a parlare.
“Io parlo in questa / lingua che passerà”, scriveva in italiano, ma non solo dell’italiano, Andrea Zanzotto: quale lingua non passerà? Ripetiamo l’esperimento da un altro punto di vista. Cosa avrebbe pensato un uomo del Medioevo di Inside Out (2015), il film di animazione della Pixar dove le emozioni di base sono cinque, ciascuna di un colore diverso? Si sarebbe riconosciuto in queste emozioni (Gioia, Tristezza, Rabbia, Paura, Disgusto)? Avrebbe saputo decodificare il modello che assegna il verde al Disgusto e il blu alla Tristezza?
LA PERCEZIONE VISIVA
Gli schemi, le categorie e i metodi di deduzione; l’utilizzo di certe convenzioni rappresentative; le esperienze pregresse che permettono di fare ipotesi plausibili su ciò di cui si ha un’informazione incompleta: sono tutti elementi che intervengono a rendere diverso da individuo a individuo il processo della percezione visiva, un processo che incomincia con strumenti uniformi quando un oggetto riflette un disegno di luce sull’occhio ma che varia per ciascuno una volta che i dati sulla luce e sul colore raggiungono il cervello perché li interpreti. L’interpretazione coinvolge capacità innate, che basterebbero a dar conto di qualche differenza tra un individuo e l’altro, e capacità che derivano dall’esperienza, non naturali ma culturali.
Queste seconde capacità definiscono l’occhio del tempo, come scrisse alcuni decenni fa Michael Baxandall in un lavoro che ricostruiva le condizioni in cui l’arte veniva creata e interpretata nella Firenze del Quattrocento. “L’occhio del Quattrocento” era solo un caso particolare di un concetto che si può generalizzare – The Period Eye, lo chiamava Baxandall – per studiare il rapporto tra lo stile conoscitivo di un pubblico e l’opera che un artista produce per quel pubblico, ma nemmeno il riferimento a un’epoca (il Quattrocento, il 2015) garantisce una contestualizzazione soddisfacente. Non è sempre vero il principio formulato da Joseph Roth per cui “avere in comune il presente è un legame più forte che avere in comune un modo di pensare”. Può essere “deplorevole” ma “va accettato”, spiegava Baxandall, il fatto che i contadini e i cittadini poveri avessero un “ruolo irrilevante” nella cultura visiva del Rinascimento, per la quale a contare era “una porzione piuttosto ristretta della popolazione”, la classe dei committenti.
Se dovessimo prendere sul serio il nostro esempio di Inside Out, vorremmo sapere qualcosa di più su quegli studenti del futuro o su quell’uomo del Medioevo: se quest’uomo fosse un medico o un mercante, un giurista o un contadino; se fosse invece una donna, e nel caso se fosse la “villana” che “sogna di spigolar sovente” (Inf. XXXII, 32-33) o una nobile che poteva passare il tempo a leggere “per diletto / di Lancialotto come amor lo strinse” (Inf. V, 127-128).
LE DOMANDE
Man mano che ci si allontana da un’opera per studiarne il contesto si capisce che il contesto è sì determinante per stabilire il significato, ma che non è mai delimitato una volta per tutte. Quante domande dobbiamo porci e a quante dobbiamo dare una risposta prima di poter dire di aver sistemato un’opera nel suo tempo e nel proprio tempo chi la studia, se entrambi questi tempi sono fatti di luoghi distanti, di esperienze diverse, di innumerevoli differenze?
Le ricerche di antropologi e linguisti hanno messo in luce come, rispetto alla capacità dell’occhio umano di percepire milioni di sfumature di colore, tutte le lingue del mondo abbiano un vocabolario limitatissimo per indicare i colori. Ciò comporta che molto di quello che riguarda il colore sia cultura, contesto: dalla definizione di un colore (di che tipo di blu parliamo quando parliamo di blu?) al problema di una tonalità indistinta che sta tra due colori per cui pensiamo di avere un nome preciso fino a quello di capire come i colori si possano combinare tra loro. Quando Dante si trova davanti a Lucifero, “lo ’mperador del doloroso regno”, si meraviglia di vedere “tre facce alla sua testa”: una “era vermiglia”, ci dice con sicurezza; quella a sinistra “era tal, quali / vegnon di là onde ’l Nilo s’avvalla” (cioè nera, ma ce lo dice con una perifrasi); e quella destra “parea tra bianca e gialla”.
Gialliccia? Giallastra? Di un bianco giallastro? Di colore misto tra il bianco e il giallo? I commentatori hanno riformulato in questi e altri modi un’osservazione che resta indistinta, spesso applicando anche all’aspetto materiale del colore lo schema che presenta Lucifero come una forma rovesciata della Trinità: così come “ignoranzia, odio, e impotenzia” sono l’opposto di “somma sapienzia, sommo amore, e somma potenzia”, le tre facce di Lucifero avrebbero tre colori diversi corrispondenti a quei “tre giri / di tre colori e d’una contenenza” che a Dante sembra di vedere nella luce del Paradiso in cui gli si rivela la Trinità.
Ma quelli della Trinità sono colori che Dante non nomina, perché non è nemmeno chiaro se riesca o no a percepirli: “parvemi”, dice, cioè “mi sembrò”, lo stesso verbo che usa per la faccia “tra bianca e gialla” di Lucifero, la sola delle tre il cui colore “parea” e non “era” quello che Dante scrive di aver visto. Come si deve interpretare questa differenza tra essere e sembrare? Negli ultimi anni è stata proposta l’ipotesi che i colori di Lucifero siano in realtà quattro e non tre, perché l’apparire tra bianca e gialla non indicherebbe un colore composto – un’idea in contrasto con la teoria aristotelica da cui Dante ricava la sua dottrina dei colori – ma due colori soltanto giustapposti o sovrapposti che sembrano e che però non sono un colore terzo, diverso dal bianco e dal giallo.
Nel mondo sensibile i colori non si mescolano, restano bianco e giallo separatamente; in Paradiso invece i colori possono effettivamente mescolarsi, ma questo impedisce addirittura di nominarli, di distinguerli nel trapassare dall’uno all’altro.
Dal colore si passa al modo di pensare che permette di parlare di un colore, e quindi di vederlo. Chissà cosa diranno, quelli che studieranno i colori che abbiamo visto noi.
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