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l'anno di dante

Di fronte al male radicale la poesia lavora col paradosso

Con il canto XXXII entriamo nell’ultimo cerchio dell’Inferno: ai margini del “pozzo scuro”

Alberto Cristofori
5 minuti di lettura

MANTOVA. È invalsa nelle nostre scuole l’abitudine di leggere l’episodio di Ugolino come se coincidesse con i primi 90 versi del XXXIII canto dell’Inferno, dal “fiero pasto” all’invettiva contro Pisa “vituperio delle genti...”. È inutile dire che Dante non prevedeva una lettura antologica del suo poema - e la mia impressione è che, in questo caso particolare, isolare l’episodio comporti la perdita di una parte importante della strategia comunicativa di Dante e quindi del significato del testo. L’episodio di Ugolino incomincia infatti alla fine del canto precedente. Non è la prima volta che Dante spezza un episodio fra due canti, invitando implicitamente il lettore a considerarli non solo singolarmente ma anche unitariamente, come un blocco narrativo più ampio. Vediamo dunque come il poeta imposta il discorso all’interno del quale si trova l’episodio di Ugolino.

Con il canto XXXII entriamo nell’ultimo cerchio dell’Inferno: Dante si trova ai margini del “pozzo scuro” costituito dalla superficie ghiacciata del fiume Cocito. Le anime dei peccatori più gravi, i traditori, vi stanno confitte più o meno profondamente a seconda della gravità delle loro colpe. Ma prima di descriverle, Dante si rivolge al lettore, lamentando l’inadeguatezza delle sue rime; e subito dopo si rivolge alle Muse, chiedendo il loro aiuto affinché le sue parole siano adeguate al loro oggetto. Come in una ouverture musicale, il poeta ci propone il primo tema-guida del canto, la riflessione sul linguaggio e sulle sue potenzialità. Un secondo tema-guida emerge dagli episodi del canto XXXII, che sono caratterizzati da una violenza via via più ferina: le prime due anime che Dante vede (fra i traditori dei parenti) sono i fratelli degli Alberti, che alla vista di Dante si prendono a testate come due caproni; subito dopo, Dante strattona per i capelli Bocca degli Abati (traditore della patria) perché confessi il suo nome, facendolo latrare come un cane; finalmente, lo stesso Dante nota “due ghiacciati in una buca”, l’uno dei quali azzanna l’altro con atteggiamento “bestial”, e lo invita a raccontare la sua storia.

Il tema dell’animalità è legato a quello della parola: la capacità di parlare, infatti, è ciò che distingue gli esseri umani dai bruti, cioè dagli animali privi di ragione. Non a caso, questi traditori ridotti a bestie sembrano condannati a usare la lingua solo per tradirsi a vicenda, denunciandosi, senza poter instaurare un vero dialogo con il poeta che percorre il loro girone. E non a caso, ovviamente, il canto si conclude con un’allusione all’atto del parlare: Dante promette a Ugolino di rendergli giustizia nei suoi versi, “se quella con ch’io parlo”, cioè la lingua, “non si secca”.

Il lungo discorso di Ugolino, nel XXXIII canto, coincide con un momentaneo recupero delle facoltà razionali che si manifestano attraverso la parola. Ugolino vi insiste in modo quasi didascalico nell’esordio del suo racconto: “pria ch’io ne favelli... le mie parole... parlare e lagrimar... quand’io t’odo... or ti dirò... dir non è mestieri... udirai, e saprai”. Avvocato di se stesso, Ugolino alterna abilmente rigorosa ricostruzione cronologica degli avvenimenti (scandita ossessivamente dalle notazioni di tempo) e improvvise mozioni degli affetti (“e se non piangi, di che pianger suoli?... ahi dura terra, perché non t’apristi?”). Riconoscendo Dante come fiorentino dal modo di parlare, dà per scontata la conoscenza del suo tradimento e della successiva condanna, e si concentra viceversa sul proprio dramma di padre amorevole (la parola “padre” è ripetuta ben quattro volte), disperato per la ingiusta morte dei propri figli. La lucida razionalità di Ugolino è tuttavia più apparente che reale.

Il suo monologo è in verità un atto di estrema vendetta nei confronti del suo nemico, compiuto grazie allo strumento della parola e della logica, ma analogo nella sostanza al cannibalesco morso sulla nuca. Il conte non può ammettere che quelle ingiuste morti sono la conseguenza diretta del suo tradimento - insomma, che è stato lui stesso ad aver distrutto la propria famiglia. E il conflitto tra le facoltà superiori dell’uomo e la materialità animalesca si risolve in lui a favore di quest’ultima: Ugolino muore di fame (“più che ’l dolor poté ’l digiuno”) dopo essere stato privato della possibilità di piangere, cioè di manifestare i propri sentimenti (“non piangea... non lagrimai...”), e della possibilità di parlare, cioè di manifestare la propria razionalità (“sanza far motto... Queta’mi...” cioè mi zittii, “stemmo tutti muti...”).

Dante commenta l’episodio di Ugolino con la celebre invettiva contro i pisani, vergogna dell’Italia intera. Invettiva paradossale, evidentemente, se presa alla lettera, giacché per punire l’ingiustizia che ha condannato quattro giovani innocenti a morire col padre Dante vorrebbe che tutti i cittadini di Pisa (ragazzi e bambini compresi) finissero annegati... Come si spiega questa contraddizione? Dante non la spiega e procede con Virgilio, incontrando nuove anime (quelle dei traditori degli ospiti) “tutte riversate”, cioè costrette supine, quasi completamente immerse nel ghiaccio. Il vento ormai fortissimo gela le loro lacrime, che formano sugli occhi una crosta impenetrabile.

Il poeta viene interpellato dall’anima di frate Alberigo e scopre che il corpo di costui è ancora vivo sulla terra, ma è abitato da un demonio, perché il suo peccato è stato talmente grave che la sua anima è immediatamente precipitata all’Inferno; e lo stesso vale per un’altra anima vicina, quella del genovese Branca Doria. Inorridito, Dante ignora la pietosa richiesta di Alberigo di scrostargli il ghiaccio dagli occhi e conclude il canto con una nuova invettiva, rivolta contro i genovesi, storici nemici dei pisani e come loro meritevoli di sparire dalla faccia della terra. Anche questo episodio sembra contenere una inaccettabile contraddizione: Dante stesso, in più occasioni, ribadisce infatti che fino all’ultimo istante della vita è possibile pentirsi e ottenere il perdono di Dio. Com’è possibile dunque che l’anima di questi peccatori sia già all’inferno, mentre il loro corpo “par vivo ancor di sopra”?

Quest’ultimo problema ammette una spiegazione abbastanza semplice: in effetti vi sono comportamenti che, come si dice comunemente, sembrano non avere nulla di umano, che rendono interiormente morti, che annientano l’anima... Dante, qui, non ci propone una riflessione teologica, ma prende alla lettera questo linguaggio metaforico. Tuttavia, a me pare che le contraddizioni del racconto dantesco si spieghino meglio se prendiamo in considerazione il ritmo narrativo dei due canti. Dante, dopo la breve introduzione con l’invocazione alle Muse, costruisce una sorta di polittico, con al centro l’episodio più ampio e complesso di Ugolino, incorniciato da quattro episodi più brevi (le anime della Caina e Bocca degli Abati nel canto XXXII; frate Alberigo e Branca Doria nel canto XXXIII).

Che il lettore di Dante potesse cogliere questo elemento parodistico dell’arte sacra a me pare indiscutibile. Del resto, tutto l’episodio di Ugolino è venato di elementi che alludono parodisticamente alla Cena e alla Passione di Cristo - l’atto del mangiare, l’allusione al pane (e al sangue), i figli che si offrono in sacrificio, le parole di Gaddo che traducono quelle di Gesù sulla croce (“Padre mio, ché non m’aiuti” - Eli, Eli, lama sabactani), la morte di Ugolino tre giorni dopo i figli (che rimanda ai tre giorni fra la morte e la resurrezione di Gesù) e così via.

Questa osservazione ci aiuta a comprendere le apparenti illogicità del discorso dantesco. Di fronte al male radicale, la poesia non può che essere poesia dell’eccesso e del paradosso. Virgilio-ragione è completamente assente, in questi due canti, se non per la breve battuta che anticipa l’ultimo episodio, il canto XXXIV. Come alla fine del paradiso, di fronte a Dio, Dante non potrà che denunciare l’insufficienza della lingua e della mente umana a comprendere tanto mistero, così di fronte al peccato senza apparente motivazione, alla malvagità fine a se stessa, alla violenza bestiale e irredimibile, ogni possibilità di comprensione logica viene meno. E tuttavia, nel momento stesso in cui lamenta l’insufficienza del linguaggio poetico, Dante ne riafferma la necessità.

Per affrontare il male radicale è necessario non l’abbandono alle emozioni viscerali, ma un di più di letterarietà (le Muse, ma anche gli altri, numerosi riferimenti mitologici che accompagnano il racconto, da Tideo al ciclo tebano di Edipo alla Parca Atropo) e una strutturazione del discorso più solida e scandita che mai (il “polittico” di cui dicevo, ma ancora la collocazione simmetrica delle invettive). Dante chiede a noi lettori di riconoscere l’ordine all’interno del quale anche il peccato più indicibile acquista un senso e può essere detto - e, almeno parzialmente, compreso.

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