In evidenza
Sezioni
Magazine
Annunci
Quotidiani GNN
Comuni

Parla Maurizio Fiorilli, cacciatore dell’arte perduta – The Mantuaners

Trapiantato a Padova e Roma Una carriera fino ai vertici dell’Avvocatura di Stato: «Uno sforzo enorme per far lavorare insieme le istituzioni. Una vita all’inseguimento di opere e trafficanti

enrico comaschi
Aggiornato alle 6 minuti di lettura

Lei è stato definito “Il flagello dei predatori di tombe” o anche “Il cacciatore dell’arte perduta”. Mi racconta il suo percorso professionale di Avvocato dello Stato, partendo proprio dalle sue origini mantovane?

«Sono nato a Mantova, poi a 12 anni mi sono trasferito a Padova. La mia famiglia ha mantenuto una casa a Pietole, e a Mantova ho parenti e amici. Sono sempre venuto e ho mantenuto rapporti con la città. Quello che mi ha influenzato nel mio percorso di vita è stato prima di tutto proprio l’ambiente familiare molto attento alla cultura e alla vita sociale. E quando uno nasce in una città come Mantova, piena di antichità e memorie storiche e culturali non può non crescere con il gusto delle cose belle, apprezzando la storia e quello che la storia ha lasciato, di cui sono testimonianza i beni culturali».

Prima di arrivare all’Avvocatura dello Stato e di specializzarsi nel recupero delle opere e dei reperti trafugati, le è passato per altri rami del diritto.

«Mi sono laureato a Padova in Diritto costituzionale e ho sempre avuto un grosso interesse per il diritto internazionale. Sono poi entrato nell’Avvocatura dello Stato, che difende l’interesse dello Stato in tutti i punti di contatto con il cittadino che necessitano di un intervento. Questo mi ha dato la competenza professionale per coordinare i conflitti tra le diverse Amministrazioni dello Stato. Vedremo poi quanto questo sia importante quando si tratta di reperti e opere d’arte. Da assistente di Costituzionale a Roma, sono passato all’Avvocatura a Venezia. Lì l’arte si respira».

E veniamo al difficile. Cosa è successo, e succede, al nostro patrimonio?

«Ho subito constatato molti problemi nei rapporti con gli altri Stati sul nostro patrimonio culturale. Visitando i musei europei e statunitensi si vedono moltissimi oggetti che provengono dall’area culturale greco-romana oltre che dall’arte italiana. Mi sono sempre chiesto da dove provenissero questi beni. È vero che in Italia ci sono state molte dominazioni straniere e molte possibili acquisizioni da cittadini e musei. Ma ci sono stati anche molti intoppi. Le faccio l’esempio della biga ritrovata in Umbria che è poi arrivata al Metropolitan Museum di New York. Il Parlamento aveva cercato i fondi per acquistarla, ma inutilmente».

Oggi gli strumenti legislativi, però, ci sono. Funzionano?

«L’Italia per prima ha avuto una legge per la tutela dei beni culturali. L’editto del cardinale Pacca (1820) serviva proprio per evitare dispersioni e contraffazioni. Ma quello che è seguito e dai risultati avevo ricavato una constatazione: non esistevano procedure giudiziarie relative a scavi clandestini perché non c’era stata un’evoluzione giudiziaria. A Roma ero nella commissione redigente del Codice dei beni culturali del 2004. Nel corso dell’istruttoria raccolsi i contributi dalle sovrintendenze per i beni archeologici: erano stati segnalati molti casi di scavi clandestini e la necessità di intervenire per ostacolare il depauperamento del patrimonio nazionale. Ma le ragioni dei pochi risultati erano la mancanza di personale del Ministero dei beni culturali e una legislazione carente. Non si era ottenuta una modifica del trattamento penale per danni al patrimonio culturale, arrivata solo nell’aprile del 2022. Altro rilievo emerso: le indagini sono difficili, non si ottengono informazioni dalle organizzazioni criminali. Ci sono stati anche omicidi».

Insomma, stiamo parlando di profili criminali importanti.

«Le difficoltà incontrare sono state enormi. Ricordo il caso di un sarcofago etrusco scomparso. Si riteneva fosse nella collezione di uno svizzero già sottoposto a procedimento penale a Roma senza risultati rilevanti. Ha la collezione più grande e sconosciuta al mondo. Durante il processo del 2010 sono stato avvicinato dagli avvocati con proposta di trasferire tutta la collezione in cambio dell’impunità. Mi è subito venuto in mente che i Gonzaga avevano una grandissima collezione che poi si sono venduti. Allora io ho proposto di fare una fondazione che portasse tutto in Italia, e pensavo a palazzo Ducale».

Poi cosa è successo?

«L’avvocato voleva la garanzia dell’impunità, ma io non potevo garantirla perché il soggetto aveva acquistato illecitamente. Senza contare, quanto a Mantova, che il problema della collocazione al Ducale o al Te era complicato perché ogni ufficio vuole restare autonomo e non vuole intromissioni. È un peccato. Mantova avrebbe avuto una collezione di pregio, che avrebbe ripristinato i fasti del passato gonzaghesco. E se proprio non si poteva fare al Ducale o al Te, c’era San Sebastiano. Vorrei che fosse chiara l’importanza del recupero di questi oggetti. Gli scavi al Forcello, ad esempio, testimoniano il macello di animali e consentono di scoprire la tradizione alimentare. E ancora: il quadro della battaglia fra Gonzaga e Bonacolsi è a suo modo un documento storico».

La legislazione ha recepito questo bisogno di sinergia, giusto?

«Nel 1969 è stato costituito il Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, nel 2006 su pressione del generale dei Carabinieri del nucleo di tutela è stato costituito in Procura a Roma un pool di magistrati esperti di esportazioni illecite di opere d’arte. Pur tenendo conto che l’Avvocatura rappresenta il ministero dei Beni culturali e ha sempre seguito scavi e processi, poco però si poteva fare. Veniva fatta la denuncia, ma l’Avvocatura non ne veniva messa a conoscenza. Allora presso il gabinetto del Ministro è stata introdotta la presenza della rappresentanza dei carabinieri del nucleo Tutela. Un effetto: nel 2005 si è fatta una grossa operazione. Sull’autostrada Roma-Napoli in una piazzola c’era un’auto con una persona morta a bordo. Aperto il baule e trovati reperti archeologici, i carabinieri sono andati nella casa del morto, un ex ufficiale della Finanza, e hanno trovato un organigramma con i nomi di varie persone unite da frecce e collegamenti. Al vertice un certo Robert Hecht. Gli atti sono stati trasmessi alla procura di Latina, quindi sono stati trasferiti a Roma, al pool di magistrati specializzati. Allora sì che il Ministero è stato informato, così come l’Avvocatura dello Stato. Sono entrato in gioco io».

Immagino l’imponenza del lavoro da fare.

«Avevo suggerito al ministro Urbani di creare una commissione interministeriale per il recupero beni culturali nel 2003. È stata in seguito costituita con un avvocato dello Stato, io, con funzioni di direzione, il comando dei nucleo carabinieri e l’Amministrazione rappresentata dai direttori generali delle singole ripartizioni. Scopo: recupero dei beni esportati illecitamente. La novità è stata quindi la collaborazione in collegamento con l’autorità giudiziaria».

Trovato il morto, come vi siete mossi?

«La commissione è stata investita. In contatto con la Procura di Roma è stata richiesta l’assistenza dell’autorità svizzera per verificare se nel porto franco di Ginevra si potesse lavorare in rogatoria. Siamo andati nel deposito di un certo Giacomo Medici e abbiamo scoperto un grosso patrimonio. In 200 metri quadrati, assicurati per 2 milioni di dollari, c’era una quantità di beni enorme. C’erano due stanze: in una c’erano armadiature piene di vasi, poi un “retrobottega” con cassette di frutta piene di reperti ancora sporchi di terra e avvolti con carta di giornale. L’esperta ha messo a verbale di non aver mai visto una collezione simile, inferiore solo a quella dei musei più importanti. I vasi greci ed etruschi erano composti da rare e magnifiche ceramiche lucane di color rosa e celeste. Poi c’erano oggetti provenienti dal Centro Italia».

La collaborazione ha pagato, così come stato contro il terrorismo e contro la mafia.

«Certo. Quel risultato è merito della collaborazione tra magistratura, carabinieri, ministero e Avvocatura. Sono riuscito a far mettere da parte gli egoismi. L’intento non era tanto far valere la responsabilità dell’interlocutore, ma trovare la prova che gli oggetti erano stati scavati illecitamente in Italia.

Come si procede?

«Devono darmi prova di un acquisto lecito perché questi oggetti hanno valore economico e devono passare per la dogana. Come avete portato tutto questo in Svizzera? Dove avete acquistato questi beni? Questo naturalmente presuppone leggi adeguate nei singoli Stati in cui i beni sono transitati. Il che comporta lo studio delle varie legislazioni. Ad esempio: negli Usa i beni con valore inferiore ai 5mila dollari non richiedono alcun certificato di provenienza per l’importazione. Magari risultava tutto arrivato dalla Gran Bretagna, poi l’oggetto era stato presentato in un museo secondario dando pubblicità all’acquisizione e facendo così scattare il termine prescrizionale».

Davvero poco rassicurante...

«Certi oggetti sono finiti al Getty, che li pubblicava sul suo giornale. Al di là dei casi specifici, magari si tratta di un vaso ricomposto da frammenti arrivati da cinque persone diverse. Ciascuno è in possesso di un pezzo orfanello che viene proposto tramite grossi commercianti ai musei internazionali. Ne arriva uno, poi l’altro, e poi si ricompone il vaso. E come si può stabilire la vera provenienza dei frammenti? Con le foto Polaroid, non riproducibili, che venivano date al museo per la ricostruzione».

Una perfetta organizzazione, si direbbe. E con numeri impressionanti.

«Nel sequestro di Ginevra a Giacomo Medici sono state trovate moltissime diapositive, una folta documentazione amministrativa, etichette di Sotheby’s. I carabinieri hanno fatto le indagini, il ministero ha collaborato per la valutazione storica, l’Avvocatura ha messo a disposizione l’esperienza giuridica. Si è attivata, insomma, la “diplomazia culturale” che è la duplicazione di quello che si dovrebbe fare in giudizio. E ne vale la pena. Solo per la collezione di Medici si parla 11mila oggetti. E pensi che persone come Medici, Hecht, Robin Symes e pochi altri hanno un giro da 6 miliardi di dollari. Medici è stato condannato a 10 anni e 20 milioni di provvisionale, altri non sono stati condannati. Symes aveva 33 magazzini in Svizzera e negli Usa per 17mila pezzi. Un patrimonio enorme: Symes risulta collegato con scavatori italiani sottoposti ad indagine».

Uno dei suoi successi è relativo al Cratere di Eufronio. Ci racconta?

«Di provenienza illecita, è stato esposto nel 1972 dal Metropolitan, che nel 2006 lo ha dovuto restituire. Si rende conto che parliamo una grande istituzione culturale internazionale?»

Incredibile. Ma cosa ha detto, ufficialmente il Metropolitan sulla faccenda?

«Il direttore aveva usato parole sprezzanti: “Non lo avrete mai”. Vede, l’opinione pubblica spesso è amorfa verso il problema dei beni culturali. C’è chi dice: i beni sono stati preservati e stanno bene lì. Del resto da New York dicevano: “All’opera abbiamo dato un rilievo che voi non avreste potuto darle. Sono oggetti di fruizione pubblica, non sottratti nè distrutti. Aggiungo che molti oggetti che vengono ritrovati all’estero provengono dai magazzini delle sovrintendenze. Le racconto anche della statua ripescata nel 1963, occultata e venduta all’estero. È indicativo: la richiesta di assistenza giudiziaria del pretore all’autorità di Monaco di Baviera è stata disattesa per colpa di una legge fatta da Mussolini per agevolare la razzia tedesca delle opere di palazzo Barberini. Ma della statua era stata accertata l’esportazione illecita e, in seguito, l’acquisto illecito del Getty. La statua è stata confiscata, ma è rimasta lì».

Per finire. Che impressione ricava tornando a Mantova?

«La città mi è sempre piaciuta. Il patrimonio è tenuto molto bene, ma Mantova è fuori dai collegamenti e l’ospitalità non risponde sempre alla domanda. Se la città produce cultura è merito dei mantovani».

I commenti dei lettori