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Coca-Cola, quel logo immortale nelle mani di Babbo Natale

Coca-Cola, quel logo immortale nelle mani di Babbo Natale
Difficile trovare un simbolo della società dei consumi di massa più conosciuto della Coca-Cola da un capo all’altro di quel Villaggio globale dove ha portato l’immagine del Paese che l’ha inventata, l'America. Ecco cosa si cela dietro al marketing che dal 1888 ad oggi ha creato l'impero della bibita gassata più famosa del mondo
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La forma è sostanza. Tranne, si può dire, quando ci si trova davanti alle icone, nel cui caso il contenuto (la "sostanza") può assumere "forme" (e involucri) differenti. Come per la Coca-Cola che, prossimamente, verrà versata anche da bottiglie di cartone. E, in questo caso, il "veicolo" – che diviene più ecofriendly e rispettoso delle nuove sensibilità dei consumatori della generazione Greta – è davvero il puro medium di un logo inconfondibile, come quello dei marchi che riescono a tramutarsi in brand (ancor più quando autenticamente globali). E si rivela appunto difficile trovare un simbolo della società dei consumi di massa più conosciuto della Coca-Cola da un capo all’altro di quel Villaggio globale dove ha portato l’immagine del Paese che l’ha inventata.

Nel caso della bevanda creata dal farmacista John Pemberton l’identificazione con gli Stati Uniti (anche in chiave di soft power) risulta, infatti, totale: Coca-Cola uguale Usa. Anche grazie a una serie di strategie di marketing che, dal 1888 (l’anno di fondazione della corporation), si sono succedute senza sosta, orientando l’immaginario dei consumatori occidentali, e poi mondiali. Al punto che, in certo qual senso, anche il Babbo Natale contemporaneo è made in Atlanta (sede della multinazionale).

Il design. Le bottiglie di Coca-Cola dai primi del '900 a oggi
Il design. Le bottiglie di Coca-Cola dai primi del '900 a oggi 
L’azienda subì ripetute traversie giudiziarie, fino all’epico processo di Chattanooga (1911), rubricato, secondo il linguaggio giuridico americano, sotto il micidiale titolo Gli Stati Uniti contro 40 barili di Coca-Cola, che traeva origine dal sequestro disposto ai danni della ditta da Andrew Wiley. Costui era il primo dirigente del Dipartimento federale di chimica e, soprattutto, il più acerrimo nemico della "bibita stimolante", in nome del salutismo e della crociata igienista a favore del "cibo genuino"; il tutto in un clima culturale all’incrocio tra il Max Weber dell’etica protestante e il tardopositivismo, nel quale tanto Wiley che il presidente in carica della Coca-Cola Company, Ass Chandler, si sfidarono rivendicando ciascuno la titolarità di un capitalismo morale e improntato ai valori.

Gli avvocati dell’azienda scelsero come strategia difensiva quella di sostenere che bambini e ragazzini rappresentavano una fetta limitatissima del pubblico dei consumatori. Il risultato sarà una consuetudine che vieterà per i settant’anni successivi l’impiego di minori (under 12) nella pubblicità della bibita.

E, così, per rimediare al rischio di venire espulsa dal proprio futuro mercato naturale, nel 1931 (anno del suo passaggio alla vendita nei grandi magazzini e, dunque, alla portata diretta delle famiglie), la Coca-Cola si affiderà a un colpo di genio dell’illustratore e pubblicitario Haddon Sundblom. Se non i bambini, si doveva allora fare ricorso a qualcosa in grado di colpire la loro immaginazione, e Sundblom prese così a modello il Santa Claus della rivista Harper’s Weekly del 1862, ricucendolo sulle fattezze del suo vicino di casa, il commesso viaggiatore (figura fondamentale la cultura popolare statunitense) Lou Patience.

Niente più folletti e atmosfere troppo favolistiche, quindi, ma un Babbo Natale iperrealista che, passata l’era della paura della Grande depressione, finì per incarnare i valori di ottimismo e fiducia nel futuro dell’American way of life. E il resto – dalle bottigliette nella Pop art al logo che compare in Blade Runner – è storia della cultura di massa.