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Clima, stiamo cambiando persino il colore dei fiori

Clima, stiamo cambiando persino il colore dei fiori
Confermato il legame tra global warming, assottigliamento dell'ozono stratosferico e cambiamento della pigmentazione nei fiori. L'ipotesi degli scienziati è che ciò "ingannerà" i fotorecettori degli impollinatori, mettendo sempre più a rischio il nostro habitat
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Quando all’inizio del nuovo millennio il Premio Nobel per la chimica Paul Crutzen coniò il termine “Antropocene”, la comunità scientifica lo accolse piuttosto freddamente. L’idea – per certi versi ripresa da quella proposta più di un secolo prima dal geologo italiano Antonio Stoppani – era che l’uomo, con la sua sola presenza, fosse riuscito a influenzare l’atmosfera e ad alterarne i complessi equilibri in maniera così marcata da dare origine a una nuova era geologica, l’Antropocene appunto. Un tempo dominato dall’inquinamento e dallo sfruttamento dissennato delle risorse che stiamo vivendo oggi, ma che origina simbolicamente con l’invenzione della macchina a vapore di James Watt. A supporto di questa teoria, vent’anni fa autenticamente rivoluzionaria, c’è oggi la gran parte della comunità e della letteratura scientifica; non ultima un’approfondita analisi dei ricercatori della Clemson University, secondo cui le fluttuazioni climatiche dell’ultimo centennio innescate dal global warming antropogenico starebbero addirittura cambiando geneticamente la pigmentazione di fiori e piante. Dalle pagine di Proceedings of Royal Accademy, il gruppo coordinato da Mattew Koski, ecologo e biologo evolutivo tra i maggiori esperti globali sul tema, avverte che il fenomeno potrebbe avere implicazioni potenzialmente distruttive sugli ecosistemi e limitare ulteriormente la capacità riproduttiva della fauna vegetale, stravolgendo le interazioni pianta-impollinatore.

La natura che si adatta all’uomo. Le foreste, i fiori e gli animali stanno rispondendo ai cambiamenti imposti dalla crisi degli ecosistemi in cui abitano. È un meccanismo fisiologico, un adattamento allo stress dell’ambiente circostante: la natura che tenta di auto conservarsi. "Ciò non vuol dire automaticamente che sia la fine del mondo – spiega Cierra Sullivan, dottoranda al dipartimento di Scienze Biologiche della Clemson e lead-author dello studio –. Ma è sicuramente un segnale da seguire con attenzione".

Il lavoro certosino di Sullivan e Koski ha passato al microscopio dodici specie, otto famiglie e dieci generi, per un totale di 1944 campioni da erbari provenienti da tutto il Nord America. Incrociando coordinate geografiche e dati storici bioclimatici, gli scienziati hanno rilevato variazioni della pigmentazione per ogni singolo campione lungo gli ultimi 124 anni “antropogenici”, quelli in cui l’uomo ha fatto (letteralmente) il bello e il cattivo tempo. "Tutti i cambiamenti di colore rilevati sono direttamente riconducibili alle fluttuazioni climatiche subite", chiarisce Koski.


Lo stesso team aveva già dimostrato pochi mesi fa un incremento marcato di pigmenti in grado di assorbire i raggi ultravioletti nelle infiorescenze su centinaia di categorie tassonomiche, i cosiddetti taxa, campionate in giro per Europa, Australia e Nord America. Fenomeno in questo caso dovuto al rapido degrado dello strato di ozono stratosferico cominciato nei primi anni ’80 sotto l’azione di agenti chimici, solventi e gas refrigeranti – poi banditi con il Protocollo di Montreal entrato in vigore nel 1989.

La vita è nei colori. Siccità, stravolgimento degli schemi “naturali” delle precipitazioni, ondate di calore: eccoli i nuovi responsabili. Ma i cambiamenti cromatici sperimentati dai fiori di mezzo mondo non sembrano essere solo una plastica testimonianza della presenza ingombrante dell’umanità: il fenomeno potrebbe rivelarsi ben più deleterio. La tesi di Koski e colleghi è che queste variazioni nella pigmentazione influenzeranno negativamente l’azione degli impollinatori sulle infiorescenze e le interazioni tra piante ed erbivori; tutte sinergie fondamentali per il nostro pianeta.

L’impollinazione entomofila – ovvero quella compiuta dagli insetti e dalla quale dipendono i tre quarti delle principali colture – si regge su automatismi tanto perfetti quanto fragili e vulnerabili, di cui la pianta si serve per 'attrarre' a sé l’impollinatore. Ma con mutamenti cromatici rapidi come quelli che ha iniziato a documentare lo studio appena pubblicato, è come se bombi, api e farfalle venissero 'ingannate' dai loro stessi fotorecettori, non riconoscendo più alcuni pigmenti a cui erano abituate geneticamente da centinaia di migliaia di anni. "Servirà altra ricerca per capire meglio come le varie specie reagiranno – conclude Koski – e soprattutto per identificare quali piante e impollinatori saranno più vulnerabili alle conseguenze della crisi climatica che ci sta investendo, qui e ora".