Le spiagge italiane traboccano di polistirolo, per lo più proveniente dalle cassette usate dai pescatori per sistemare il pescato mentre sono in mare: "In Italia si stima che ogni anno vengano consumati 10 milioni di cassette di polistirolo, in modalità "usa e getta". Si stima che tra le sole Ancona e San Benedetto, se ne usino almeno 750.000" spiega Rosalba Giugni, presidente dell'associazione ambientalista Marevivo. "E per avere un'idea dell'impatto complessivo basta pensare che una sola cassetta, quando finisce in mare e si sfalda, può produrre oltre un milione di microplastiche, che poi entrano nelle catene alimentari dei pesci e quindi di riflesso anche dell'uomo".
Per affrontare questo problema, e più in generale quello dell'inquinamento da plastica nel Mediterraneo - l'iniziativa BlueMed, che è stata promossa dall'Italia e oggi coinvolge 11 nazioni che si affacciano sul Mediterraneo - ha lanciato il progetto "Pilot Blue Med: plastic-free, healthy Mediterranean sea". "Lo scopo è la condivisione di strategie, esperienze e buone pratiche per risolvere il problema della plastica nel Mediterraneo, che pur essendo solo l'1% della superficie globale di mari e oceani, contiene il 7% della plastica" spiega il promotore di Bue Med, Fabio Fava, professore di biotecnologie industriali e ambientali all'Università di Bologna e coordinatore del gruppo per la bioeconomia presso la Presidenza del consiglio. "Ad oggi sono state condivise le azioni di monitoraggio, ovvero ciò che ogni Paese fa per capire da dove e in che modo la plastica entri nel mare, e le azioni di recupero e valorizzazione delle plastiche raccolte".
Sotto quest'ultimo aspetto l'Italia fa scuola: "Siamo l'unico Paese ad avere una legge, che è stata chiamata "Salvamare", che consente ai pescherecci di recuperare la plastica" spiega Fava. "E con gli altri Paesi condividiamo i modi per valorizzare la plastica così ottenuta - ad esempio riciclandola per vari prodotti - così da poter finanziare il lavoro di raccolta dei pescherecci, e anche i sistemi per rimpiazzare - anche se per ora in percentuali esigue - la plastica con polimeri biodegradabili e biocompostabili".
E proprio questo è uno dei punti che più chiamano in causa la scienza: trovare alternative che siano al tempo stesso "verdi" e realistiche a materiali usatissimi come il polistirolo. "È un problema tecnologico e ambientale molto complesso" spiega Paola Fabbri, docente di scienza dei materiali all'Università di Bologna "Perché il polistirolo è un materiale espanso rigido - quindi adatto a fare cassette come quelle dei prodotti ittici ma anche le vaschette per carne e verdura che troviamo al supermercato - con delle ottime proprietà meccaniche. È molto resistente. Anche quando viene espanso tantissimo. È leggerissimo (può pesare anche solo 3 kg al metro cubo), e questo facilita il trasporto ma purtroppo fa anche sì che sui pescherecci o sulle piattaforme marine di coltura ittica, basti una folata di vento per far volare in mare questi contenitori". Che sono molto economici, perché il processo di espansione del polistirolo è particolarmente semplice: richiede solo vapore acqueo.
L'invasione dei mozziconi, nemici dell'ambiente
"Un altro vantaggio del polistirolo per la conserva del pescato è la sua enorme capacità di isolamento termico. Ha una conducibilità termica incredibilmente bassa, circa la metà di quella del sughero. Questo grazie alla sua enorme espansione, che permette di incamerare tantissima aria: è l'aria che dà l'effetto isolante. Il tipo di espansione del polistirene fa sì che le cellette di aria all'interno dell'espanso siano isolate le une dalle altre: questo rende super efficiente l'isolamento termico e bassissima la conducibilità" spiega Fabbri. "Ecco perché in una vaschetta di polistirolo espanso noi possiamo mettere il ghiaccio e conservarlo per molto tempo". Il problema principale per l'ambiente è che il polistirolo non ha nessun tipo di biodegradabilità, e quindi è estremamente durevole: "Può permanere per millenni nell'ambiente marino" spiega Fabbri.
Dalle microplastiche alle cozze: il viaggio dei batteri che contaminano la catena alimentare
"L'unica strategia di mitigazione del problema è rimpiazzarlo con dei polimeri capaci di biodegradarsi spontaneamente in mare senza rilasciare nessuna sostanza tossica". La cattiva notizia è che ancora non esiste il materiale perfetto. "Le uniche plastiche spontaneamente biodegradabili in mare sono i PHA (poliidrossialcanoati). Tutte le altre bioplastiche chiamate "biodegradabili" in realtà sono compostabili. Ovvero sono biodegradabili in un impianto industriale di compostaggio, e non in mare" spiega Fabbri. "Ad esempio il PLA (acido polilattico), che oggi è uno dei polimeri biodegradabili più disponibili commercialmente. È un polimero rigido, con buone proprietà meccaniche, e che si può espandere. Se finisce in mare, pur non essendo durevole quanto il polistirene, è comunque un inquinante, perché non si biodegrada spontaneamente".
Quindi i PHA potrebbero diventare un giorno una soluzione, ma prima bisogna migliorarne le prestazioni. "Ad oggi esistono pochi esempi di PHA espansi. Il PHA più rigido (ovvero il PHB, poli-β-idrossibutirrato) quando viene espanso diventa fragilissimo e quindi non è utile. Esistono altri tipi di PHA, come il PHBV, che sono più flessibili e però soltanto adesso li si sta iniziando a espandere" spiega Fabbri. "I PHBV sono promettenti, ma ancora non sappiamo bene quali proprietà si otterranno". Degli altri esempi interessanti (e commerciali) di polimero biodegradabile sono stati realizzati partendo dai funghi. Grazie a progetti finanziati dalla Commissione Europea che hanno dato vita a diverse startup. "Si è visto che con alcuni tipi di micelio si può realizzare un materiale espanso di leggerezza paragonabile al polistirene, completamente biodegradabile nell'ambiente (in quanto fungo) e anche molto efficiente come isolamento termico, ma con proprietà meccaniche molto inferiori al polistirene, soprattutto la resistenza alla compressione. Quindi posso creare delle vaschette con questi materiali, ma se il contenuto è pesante, l'espanso collassa" spiega Fabbri. "Un altro svantaggio è che questi espansi ricavati dai funghi risentono molto dell'umidità, che degrada le loro proprietà meccaniche. Quindi alla fine non si tratta di una vera alternativa percorribile per i pescherecci. Per alcune applicazioni di coibentazione l'espanso da funghi è interessante, ma non rappresenta un'alternativa al polistirene in tutte le sue applicazioni".
Microplastica: la lotta al nemico (quasi) invisibile con reti, batteri 'aspirapolvere' e magneti
Un'altra alternativa ancora assai imperfetta sono gli espansi a base di cellulosa: "Sono fibre di legno, che vengono impregnate con delle resine e poi espanse. Ma la loro sostenibilità è molto dibattuta, perché queste fibre, per essere continue ed espandibili devono essere modificate chimicamente con resine che non sono né "bio" né biodegradabili" spiega Fabbri. Quindi le speranze di biodegradabilità sono affidate ai PHA. Ma - come sempre per le questioni ambientali - "con juicio". "Il rischio di promuovere, a livello di comunicazione, i PHA come materiali biodegradabili spontaneamente nel mare è che poi passi il messaggio al pubblico che si possa buttare tranquillamente a mare gli oggetti in PHA. E questa è un'informazione errata, che non deve passare" puntualizza Fabbri.