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E l’Italia fu sedotta dal Moplen

Gino Bramieri
Gino Bramieri 
Avviandosi al boom, il Paese scoprì un materiale infrangibile, colorato, leggero, che poteva avere persino forme tonde e sinuose. Addio alla bacinella di metallo, cambia la vita di chi lavora in casa. E la nuova plastica diventa un fenomeno di costume
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La plastica, che rivoluzione (che fu)! Mentre oggi, a fronte dei cambiamenti sociali e della spinta plastic free, alcuni guarderebbero a essa, in maniera retrotopica, come a una sorta di "controrivoluzione". Sono le oscillazioni dello spirito dei tempi, nelle sue incessanti metamorfosi, e del barometro della sensibilità sociale che adesso segna una spiccata propensione per materiali ecocompatibili e sostenibili.


Di sicuro, però, l’arrivo del Moplen nell’Italia che correva a grandi falcate verso la stagione del boom e del miracolo economico fece rima con modernità. E, all’epoca, la grande industria chimica rappresentò, giustappunto, uno dei vettori della modernizzazione di un Paese che si avviava a diventare una delle grandi potenze industriali dell’Occidente dopo le devastazioni della seconda guerra mondiale.


La plastica si convertì così nel “gettonatissimo” materiale di riferimento, frutto del progresso scientifico e tecnologico, della vita quotidiana di generazioni che guardavano al futuro con ottimismo. Le fibre plastiche hanno via via sostituito il materiale (spesso leghe di metallo) di tutti i manufatti casalinghi e più comuni. Il perno della loro produzione massiccia era il ciclo produttivo degli stampi a caldo, grazie al quale, di fatto con un passaggio solo, si arrivava al prodotto finito. Con fogge – come quelle tonde ed ellittiche – prima estremamente problematiche, se non semplicemente impossibili, da ottenere: ed esattamente dall’ampia gamma delle nuove forme realizzabili derivò un’altra delle ragioni del successo delle materie plastiche presso il vasto pubblico dei consumatori.


Il genio italiano trovò proprio nel campo delle plastiche un terreno di affermazione significativo. È Giulio Natta (1903-1979), infatti, a inventare nel 1954 il polipropilene isotattico, a partire dalle ricerche del chimico tedesco Karl Ziegler (il quale aveva ottenuto il polietilene attraverso la catalisi), realizzando un prodotto che fondeva a 180 gradi, assai resistente e facile nella lavorazione. Dopo il conseguimento di quel risultato l’industria nazionale scommette sui polimeri, e dà vita a un comparto chimico che conquista una posizione di primo piano nell’economia internazionale. E Natta – paragonato nel frattempo al Dottor Faust, mago della materia – riceve nel ‘63 (primo e unico italiano) il premio Nobel per la chimica insieme a Ziegler. Fu la consacrazione definitiva del suo ruolo nello sviluppo della chimica macromolecolare fondata sui procedimenti di polimerizzazione stereospecifica, che Natta descriveva scherzosamente mediante la frase: "Ho solo trovato il modo di mettere in fila le molecole come soldatini in parata".

Il chimico diceva orgogliosamente di sé stesso di essere, fondamentalmente, un "prodotto dell’industria milanese"; e, difatti, i suoi lavori furono resi possibili dal sodalizio di lunga data con il direttore generale (e, dal ‘49, amministratore delegato) della Montecatini Piero Giustiniani, con il quale aveva compiuto un viaggio nell’estate del ‘47 negli Stati Uniti per osservare da vicino le tecnologie chimiche dell’industria americana. Al ritorno, Giustiniani aveva deciso di scommettere fortemente su Natta, mettendogli a disposizione le risorse per la creazione di un centro di ricerca avanzato (sul modello statunitense) presso il Politecnico di Milano.   

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Le denominazioni delle materie plastiche rappresentavano l’esito di uno sfoggio autentico di creatività linguistica. Come, per l’appunto, nel caso del Moplen, prodotto a Terni dalla Polymer e a Brindisi dalla Montesud (società controllate dalla Montecatini), che si trasforma ben presto nella regina delle plastiche "mai più senza" in ogni casa – dagli scolapasta agli spremiagrumi ad altre suppellettili di cucina, dai giocattoli alle bacinelle, fino alle assi per lavare (quando non tutti possedevano una lavatrice). E, ancora, moltissimi oggetti di arredamento, le parti interne dei frigoriferi (perché il polipropilene è anti-muffa), i mattoncini della Lego, e chi più ne ha più ne metta. Un materiale che entra anche nella cultura popolare attraverso gli spot di Carosello, dove veniva reclamizzato – o, per meglio dire, letteralmente celebrato – da Gino Bramieri con gli slogan (allora famosissimi):  "E mò e mò e mò... Mo-plen!" e "Signora, badi ben, che sia fatto di Mo-plen!".


Gli oggetti realizzati in Moplen erano leggeri e colorati, non si arrugginivano né rompevano, e originarono una vera e propria smania consumistica. Al punto che, nel ‘62, la produzione su scala mondiale del polipropilene di Natta e del polietilene di Ziegler era arrivata a circa 300mila tonnellate. Erano cominciati i cosiddetti "Anni della plastica", e la sua diffusione incessante determinata dalle formidabili proprietà meccaniche che possedeva.


Le stesse che, da qualche tempo, si sono rivelate la principale fonte del problema. E, difatti, negli anni Cinquanta, prima della rivoluzione (e invasione) dei polimeri, la spazzatura praticamente non esisteva. La plastica tradizionale, come noto, si rivela sostanzialmente indistruttibile, risulta difficilmente inseribile nei processi di riciclaggio e, abbandonata nell’ambiente, si degrada in tempi lunghissimi (dal secolo al millennio). Ma, fortunatamente, anche sulla spinta della ormai consolidata coscienza ecologista, l’idea della sostenibilità sta portando l’industria a sviluppare tipologie di plastica innovative.