"Sono arrivati a casa mia alle 6.30 del mattino. Sei carabinieri. Volevano che consegnassi dei vestiti non miei. Ho preso il telefono e ho letto un messaggio di I., anche a casa sua ce n'erano sei. 'Allora non siete venuti solo qui', ho detto. E mi hanno intimato di non usarlo". J. si occupa di sicurezza informatica per una banca ed è un attivista di Fridays for future e del centro sociale Lambretta di Milano. Il 19 maggio, all'alba, è stato perquisito nella sua casa da sei militari con l'accusa di imbrattamento e sabotaggio di videocamere con fumogeni. La stessa sorte toccata anche a I. e S., altri due attivisti del suo gruppo.
I carabinieri hanno sequestrato cellulari, vestiti, volantini. A J. hanno mostrato delle foto chiedendo gli indumenti che indossava la persona ritratta nella foto. "Ma non ero io - precisa - e quelli non erano i miei vestiti. Allora ne hanno cercati altri che ritenevano simili e li hanno portati via. Insieme al mio telefono, senza darmi la possibilità di avvisare al lavoro, salvare dati sensibili, scrivere alle persone care. Ne ho dovuto comprare uno nuovo". A S. hanno ordinato di spogliarsi e di accovacciarsi per assicurarsi che non nascondesse nulla. "All'inizio - ha raccontato S. - ero molto spaventato. Ora sono molto arrabbiato. Perché tutti parlano della mancanza di democrazia in Russia ma queste cose stanno accadendo anche qui".
L'iniziativa
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