L’acquavite di ghiande è un prodotto che non esisteva ed ora c’è. Un distillato di bosco, l’istantanea di una stagione particolare, tra la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno, il momento del raccolto che precede un lungo inverno.
Tempio Pausania è una delle tante località in Sardegna che hanno improntato parte della loro economia sul sughero. La storia della viticoltura, però, qui si intreccia con una vicenda più antica che riguarda il bosco e il suo utilizzo. Una storia che ci riporta all’Alto Medioevo quando la quercia era un albero del pane alla pari del castagno. In Ogliastra si mangiava addirittura una focaccia a base di ghiande, cenere e argilla di cui rimangono tracce in un dolce che tuttora si gusta a Urzulei. Fino agli anni Quaranta le ghiande finivano nella tazzina, al posto del caffè: la cosiddetta “ciofeca”, che per il suo spiccato amaro è diventata sinonimo di schifezza.
Guerra e povertà che lasciano l’amaro in bocca, in tutti i sensi, condannano così la ghianda a cibo per i porci e all’oblio della tavola. Se non fosse per un agronomo, Fabio Depperu, che ha immaginato per le ghiande un futuro nella grande ristorazione, al pari dei prodotti più rari e preziosi del mondo.
Il suo percorso inizia nel 2009 con i piccoli frutti che coltiva e serve nei migliori resort della Costa Smeralda. Coltiva in campo aperto dall’uva spina alla mora, dal ribes al mirtillo. Questa produzione stagionale, però, non gli basta più: vuole arrivare all’essenza, conservarla, immobilizzarla nel tempo. Ecco perché pensa alla distillazione: presenta un progetto europeo in collaborazione con la facoltà di Scienze Agroalimentari per l’Università di Udine, allestisce una microdistilleria e crea i primi distillati monofrutta.
Poi l’ispirazione arriva da un prodotto che con la Sardegna ha un legame secolare, la sapa, che prima dell’arrivo della vite era realizzata con fichi d’India - la saba de figu - e con i corbezzoli. Questi ultimi potevano anche essere distillati, con un processo complicato che oggi non si usa più. Fabio però riparte da qui e punta sul distillato di corbezzolo che lo avvicina ancor più a questo concetto estremo di distillazione, di procedura quasi alchemica capace di fissare un’essenza.
Il corbezzolo è tuttora noto dal punto di vista alimentare, anche se in maniera residuale. La ghianda, invece no, o meglio, non nella contemporaneità. Così l’idea di farne un distillato sembra una follia. Non ci sono precedenti, non sarebbe teoricamente neppure possibile metterla in commercio perché mancano testimonianze sulla sua edibilità. Fabio inizia un lungo percorso di ricerca in tutta Europa, di studio della storia, contemporaneamente alle analisi effettuate nei laboratori dell’Università. L’obiettivo è ottenere il via dall’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli e dall’Ispettorato centrale repressione frodi al commercio di questo prodotto.
Puntare sulle ghiande potrebbe essere controproducente, per la nomea di cibo dei maiali, ma lui non si arrende. Battezza la sua acquavite di ghiande Landhè, traduzione letterale di ghianda nel dialetto lugudorese. Un nome che però viene travisato dai Consorzi delle Langhe che temono un tentativo di evocazione del territorio piemontese. Qui però nebbiolo e nocciole sono lontani. C’è solo un bosco e un fascicolo che sembra un libro, con i risultati di analisi (alla fine i procedimenti saranno ben 58 ), controanalisi e atti che vengono depositati con uno scopo: affermare, senza ombra di dubbio, che quel distillato che prima non c’era, ora esiste.
Fabio vince la sua (prima) battaglia e così può continuare ad accendere il suo microalambicco da 140 litri a fiamma diretta e distillare quel raccolto tanto faticoso da ottenere. "Le ghiande - spiega - non ci sono tutti gli anni. Ad esempio la sughereta sperimentale Cusseddu Miali Parapinta di Nuchis nel 2019 era così piena di ghiande da non poterci camminare, nel 2020 e nel 2021 al contrario era completamente sgombra per colpa del Maestrale che l'ha colpita in fioritura bloccando del tutto la produzione”. Questo però non è l’unico ostacolo: “Le ghiande possono essere raccolte solo da terra, perché solo queste sono sicuramente mature, ma sono anche più appetibili per gli insetti che ne apprezzano l’amido e per i cinghiali. Devono essere cernite una a una durante la raccolta e prima dell’utilizzo”. Risultato? Quattro persone non riescono a raccogliere più di due quintali di prodotto in una giornata che poi devono essere essiccati per almeno 35 ore. Una volta terminata questa fase, inizia la macinatura per trasformare le ghiande in uno sfarinato molto fine che viene inserito nel bollitore dove inizia la fermentazione. Il fiore del mosto subisce tre cicli di distillazione. La resa è infinitesimale: meno di un litro di distillato da un quintale di ghiande verdi. La produzione non supera le 2000 bottiglie l’anno, racchiuse in cofanetti di legno realizzati a mano e con le scritte in Braille.
Landhè nasce dal bosco, da piante secolari. “Nessuno può pensare di piantare delle querce e raccoglierne i frutti - continua - noi abbiamo scelto di prendere in affitto una foresta certificata FSC, poco o nulla antropizzata”. Quelle ghiande si legano alla Sardegna di secoli fa e l’acquavite che se ne ricava è un ponte con quei boschi dell’Alto Medioevo, ne conserva il profumo. Un mix di castagna e nocciola, di falò spenti e di terra appena prima che cada la pioggia.