C'è una moneta da spendere per il lavoro
Enrico Grazioli
Aggiungiamo un tassello, una suggestione, al puzzle di considerazioni sul raddoppio della centrale di Ostiglia/Sermide stimolate di recente dalla Gazzetta, cercando di andare oltre il pur fondamentale tema dell’impatto ambientale. Bene fa il sindacato a porre come spartiacque la certezza del lavoro. Condizione necessaria prima di concedere un sì, ma non sufficiente. Perché qualunque nuovo investimento industriale è comunque sottoposto ai venti incerti del futuro. E qualunque patto, anche quelli firmati in buona fede, può essere stracciato da una crisi, magari da una pandemia... C’è una moneta con cui chi investe solletica e conquista, nel lecito, le amministrazioni pubbliche e le comunità mentre modifica la portata della sua presenza sul territorio: gli oneri di urbanizzazione e costruzione, le cosiddette (appunto) monetizzazioni. Soldi a compensare l’intervento: denari che altrimenti non arrivano alle casse dei comuni, in buona parte da destinare per legge a opere pubbliche. E vai, allora, con marciapiedi dorati o quasi, riasfaltature ossessive di strade comunque crepate dal gelo e dal sole, palestre che rimarranno semivuote, aiuole ai bordi del verde che già c’è, rotatorie come non ci fosse un domani al di là di un incrocio, meglio curvarlo: tutte cose che significano lavoro, certo, non solo teatrini per gli umarell. Ma se questi denari diventassero invece “oneri di occupazione”? Se costituissero un fondo paracadute per sostenere un welfare ormai asfittico? O permettessero incentivi, attraverso bandi, per chi vuole avviare nuove attività? Se entrassero in circolo invece di finire nel catrame? Perché un monolito industriale, come la monocoltura nei campi, rischia comunque di fare prima o poi intorno a sé il vuoto. O un abisso.
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