Varga Llosa: la crisi genera letteratura
Il premio Nobel 2010, ospite del Festival dieci anni fa, parla del suo testo teatrale Appuntamento a Londra, messo in scena a Pegognaga. Ma anche di letteratura, diritti umani e della rivolta in Libia. Con un unico denominatore comune: il disprezzo per i dittatori. La nota positiva è che l'immaginazione metterà fine al disordine
3 minuti di lettura

di Sergio Buonadonna
Mario Vargas Llosa, 74 anni, Nobel per la Letteratura 2010, si sta godendo l'estate peruviana nella sua Lima. «Malgrado l'umidità - dice - preferisco passare l'estate qui, lontano dai rigori di New York o dalla Spagna che tanto amo».
E che è la sua seconda patria, tanto che il re Juan Carlos lo ha appena nominato marchese insieme col tecnico delle "Furie Rosse" campioni del mondo, Vicente Del Bosque, «un accoppiamento che mi inorgoglisce - commenta al telefono sorridendo - perché per il resto non so come si viva da nobile».
Vargas Llosa è stato protagonista a Pegognaga con "Appuntamento a Londra", la sua pièce sul mistero dell'amicizia e dell'identità e sui rituali della sessualità nella vita segreta delle persone in scena al teatro Anselmi, interpreti Pamela Villoresi e David Sebasti per la regia di Maurizio Panici.
Lei ha visto "Appuntamento a Londra" a Spoleto. Come giudica l'allestimento?
«Originale, sottile, fantasioso. Magnifica Pamela Villoresi nel rendere l'ambiguità del suo personaggio, e bravo Sebasti».
È vero che il finale della messinscena italiana è quello che la emoziona di più?
«Sì, il regista ha saputo valorizzare in modo ingegnoso il momento risolutivo della storia. Pamela ci ha messo humour e sensualità e quando torna in scena vestita da uomo e con un'impronta maschile, la coppia si rivela per quello che è: una coppia omosessuale».
La Villoresi teneva molto a portare questo lavoro in Italia. Come sono iniziati i vostri contatti?
«Vent'anni fa Pamela, gran donna di teatro, mi chiese di scrivere un'opera su Santa Teresa d'Avila. Ne parlammo a Roma, l'idea mi piacque, ci lavorai anche molto ma a quel tempo ero impegnato nella battaglia presidenziale in Perù e non riuscii a portarla a termine. Mi sentivo in debito con lei».
La pièce nasce da una circostanza casuale: un suo incontro a Londra con Guillermo Cabrera Infante.
«Guillermo mi raccontò di una telefonata del poeta venezuelano Esdras Parra che entrambi avevamo conosciuto a Caracas negli anni '60, ed avevamo perso di vista. Esdras si era fatto operare a Casablanca, era diventato donna. Da quel momento mi sono immaginato l'incontro a Londra di due amici d'infanzia uno dei quali ha cambiato sesso e come essi non rivivano solo immagini della memoria ma all'improvviso abbiano una specie di catarsi reciproca che rivela fantasmi nascosti della loro personalità».
La vicenda è un paradigma di quell'ibrido chiamato identità?
«Il tema dell'identità sta sulla bocca di tutti e si presuppone che sia una categoria salda, solida ma io non ne sono convinto. Penso che le identità siano mutevoli, le scegliamo e le ricreiamo costantemente».
"Appuntamento a Londra" come il racconto "I cuccioli" è la storia che lei ha corretto più volte: per cinque, sei anni. Come lo spiega?
«Non ero soddisfatto, ogni volta che terminavo mi dicevo che non ne avevo sfruttato a sufficienza le possibilità e quindi riscrivevo. Da tre anni finalmente mi sono separato da questo testo, la cui ultima versione è quella magnificamente tradotta da Ernesto Franco. Ma ho sempre la tentazione di perfezionare il testo! Credo che solo la morte porrà la parola fine al mio rapporto con "Appuntamento a Londra".
Un tratto costante della sua narrativa è la "mentira", cioè la differenza tra la durezza della vita e la possibilità che la letteratura ci dà di vivere altre vite. È così?
«Credo che gli esseri umani abbiano inventato la finzione per vivere la vita che non possiamo avere nella realtà e materializzare il sogno di uscire da sé stessi, di incarnarsi in un'altra persona con un destino più ricco, avventure ed esperienze diverse, eroismo, cattiveria, generosità, santità, tutte passioni che generalmente la vita non ci permette. L'invenzione letteraria dà rigore e coerenza a questa vita fittizia; è la ragione principale per cui siamo usciti dalla barbarie e ci siamo umanizzati».
Quali sono le condizioni migliori perché nasca grande letteratura?
«Che una società viva traumi e crisi profondi, che non incontri una risposta né religiosa né filosofica e che debba ricorrere all'immaginazione per affrontare il disordine che la circonda. Questo spiega l'enorme ambizione narrativa di epoche come l'Ottocento europeo. Il caso della Russia è interessantissimo: Tolstoj, Dostojevsky, Cecov esprimono il grande intreccio tra intelligenza, sensibilità e realtà storica, sociale e culturale».
È quello che è avvenuto anche in America Latina?
«In buona parte; violenza e ingiustizia nel nostro continente hanno generato una letteratura creativa e ambiziosa».
Come si vive da Nobel?
«Sono molto più occupato perché c'è una pressione mediatica enorme dalla quale bisogna difendersi per poter continuare a scrivere, ma a parte ciò ti dà molta soddisfazione».
García Márquez, il suo storico "rivale" ha commentato "pari e patta". Avete almeno ripreso a parlarvi?
«Preferisco non toccare quest'argomento. Posso solo dire che io voglio continuare a vivere fino alla fine scrivendo, non desidero tramutarmi in una statua».
Lei è stato sempre un grande accusatore della violazione dei diritti umani. Lo ha fatto in Perù, in America Latina, lo ha fatto criticando la politica di Israele, come vede quel che sta accadendo in Libia?
«Mostruoso, un vero genocidio. Come non protestare e non partecipare anche con la parola, condannando, denunciando, solidarizzando con chi sta lottando per sopprimere la barbarie? Soprattutto da Paesi come i nostri latinoamericani dove abbiamo una tradizione altrettanto forte di violenza, di crimini, di diritti umani calpestati, noi scrittori abbiamo un obbligo letterario e morale nei confronti di chi lotta in tutto il mondo. La Libia mi ricorda molto il caso di Trujillo nella Repubblica Dominicana. Anche lui era un dittatore genocida con lo stesso istrionismo da pagliaccio come Gheddafi. Il suo governo non solo è stato crudele ma di una teatralità grottesca, neroniana».
L'America Latina di oggi?
«Per fortuna le dittature scompaiono tranne Cuba e le semidittature che sono Venezuela e Nicaragua; c'è il regime populista di Evo Morales in Bolivia ma per il resto prevalgono governi democratici che funzionano indipendentemente dalle scelte di sinistra o destra e con un ruolo di forza e dignità delle donne».
Che cosa sta preparando?
«Cambio genere e mi occupo di comicità. Sto lavorando a un adattamento teatrale de "Le Mille e una notte". Sarà una sorpresa».
Mario Vargas Llosa, 74 anni, Nobel per la Letteratura 2010, si sta godendo l'estate peruviana nella sua Lima. «Malgrado l'umidità - dice - preferisco passare l'estate qui, lontano dai rigori di New York o dalla Spagna che tanto amo».
E che è la sua seconda patria, tanto che il re Juan Carlos lo ha appena nominato marchese insieme col tecnico delle "Furie Rosse" campioni del mondo, Vicente Del Bosque, «un accoppiamento che mi inorgoglisce - commenta al telefono sorridendo - perché per il resto non so come si viva da nobile».
Vargas Llosa è stato protagonista a Pegognaga con "Appuntamento a Londra", la sua pièce sul mistero dell'amicizia e dell'identità e sui rituali della sessualità nella vita segreta delle persone in scena al teatro Anselmi, interpreti Pamela Villoresi e David Sebasti per la regia di Maurizio Panici.
Lei ha visto "Appuntamento a Londra" a Spoleto. Come giudica l'allestimento?
«Originale, sottile, fantasioso. Magnifica Pamela Villoresi nel rendere l'ambiguità del suo personaggio, e bravo Sebasti».
È vero che il finale della messinscena italiana è quello che la emoziona di più?
«Sì, il regista ha saputo valorizzare in modo ingegnoso il momento risolutivo della storia. Pamela ci ha messo humour e sensualità e quando torna in scena vestita da uomo e con un'impronta maschile, la coppia si rivela per quello che è: una coppia omosessuale».
La Villoresi teneva molto a portare questo lavoro in Italia. Come sono iniziati i vostri contatti?
«Vent'anni fa Pamela, gran donna di teatro, mi chiese di scrivere un'opera su Santa Teresa d'Avila. Ne parlammo a Roma, l'idea mi piacque, ci lavorai anche molto ma a quel tempo ero impegnato nella battaglia presidenziale in Perù e non riuscii a portarla a termine. Mi sentivo in debito con lei».
La pièce nasce da una circostanza casuale: un suo incontro a Londra con Guillermo Cabrera Infante.
«Guillermo mi raccontò di una telefonata del poeta venezuelano Esdras Parra che entrambi avevamo conosciuto a Caracas negli anni '60, ed avevamo perso di vista. Esdras si era fatto operare a Casablanca, era diventato donna. Da quel momento mi sono immaginato l'incontro a Londra di due amici d'infanzia uno dei quali ha cambiato sesso e come essi non rivivano solo immagini della memoria ma all'improvviso abbiano una specie di catarsi reciproca che rivela fantasmi nascosti della loro personalità».
La vicenda è un paradigma di quell'ibrido chiamato identità?
«Il tema dell'identità sta sulla bocca di tutti e si presuppone che sia una categoria salda, solida ma io non ne sono convinto. Penso che le identità siano mutevoli, le scegliamo e le ricreiamo costantemente».
"Appuntamento a Londra" come il racconto "I cuccioli" è la storia che lei ha corretto più volte: per cinque, sei anni. Come lo spiega?
«Non ero soddisfatto, ogni volta che terminavo mi dicevo che non ne avevo sfruttato a sufficienza le possibilità e quindi riscrivevo. Da tre anni finalmente mi sono separato da questo testo, la cui ultima versione è quella magnificamente tradotta da Ernesto Franco. Ma ho sempre la tentazione di perfezionare il testo! Credo che solo la morte porrà la parola fine al mio rapporto con "Appuntamento a Londra".
Un tratto costante della sua narrativa è la "mentira", cioè la differenza tra la durezza della vita e la possibilità che la letteratura ci dà di vivere altre vite. È così?
«Credo che gli esseri umani abbiano inventato la finzione per vivere la vita che non possiamo avere nella realtà e materializzare il sogno di uscire da sé stessi, di incarnarsi in un'altra persona con un destino più ricco, avventure ed esperienze diverse, eroismo, cattiveria, generosità, santità, tutte passioni che generalmente la vita non ci permette. L'invenzione letteraria dà rigore e coerenza a questa vita fittizia; è la ragione principale per cui siamo usciti dalla barbarie e ci siamo umanizzati».
Quali sono le condizioni migliori perché nasca grande letteratura?
«Che una società viva traumi e crisi profondi, che non incontri una risposta né religiosa né filosofica e che debba ricorrere all'immaginazione per affrontare il disordine che la circonda. Questo spiega l'enorme ambizione narrativa di epoche come l'Ottocento europeo. Il caso della Russia è interessantissimo: Tolstoj, Dostojevsky, Cecov esprimono il grande intreccio tra intelligenza, sensibilità e realtà storica, sociale e culturale».
È quello che è avvenuto anche in America Latina?
«In buona parte; violenza e ingiustizia nel nostro continente hanno generato una letteratura creativa e ambiziosa».
Come si vive da Nobel?
«Sono molto più occupato perché c'è una pressione mediatica enorme dalla quale bisogna difendersi per poter continuare a scrivere, ma a parte ciò ti dà molta soddisfazione».
García Márquez, il suo storico "rivale" ha commentato "pari e patta". Avete almeno ripreso a parlarvi?
«Preferisco non toccare quest'argomento. Posso solo dire che io voglio continuare a vivere fino alla fine scrivendo, non desidero tramutarmi in una statua».
Lei è stato sempre un grande accusatore della violazione dei diritti umani. Lo ha fatto in Perù, in America Latina, lo ha fatto criticando la politica di Israele, come vede quel che sta accadendo in Libia?
«Mostruoso, un vero genocidio. Come non protestare e non partecipare anche con la parola, condannando, denunciando, solidarizzando con chi sta lottando per sopprimere la barbarie? Soprattutto da Paesi come i nostri latinoamericani dove abbiamo una tradizione altrettanto forte di violenza, di crimini, di diritti umani calpestati, noi scrittori abbiamo un obbligo letterario e morale nei confronti di chi lotta in tutto il mondo. La Libia mi ricorda molto il caso di Trujillo nella Repubblica Dominicana. Anche lui era un dittatore genocida con lo stesso istrionismo da pagliaccio come Gheddafi. Il suo governo non solo è stato crudele ma di una teatralità grottesca, neroniana».
L'America Latina di oggi?
«Per fortuna le dittature scompaiono tranne Cuba e le semidittature che sono Venezuela e Nicaragua; c'è il regime populista di Evo Morales in Bolivia ma per il resto prevalgono governi democratici che funzionano indipendentemente dalle scelte di sinistra o destra e con un ruolo di forza e dignità delle donne».
Che cosa sta preparando?
«Cambio genere e mi occupo di comicità. Sto lavorando a un adattamento teatrale de "Le Mille e una notte". Sarà una sorpresa».
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