Picchiata e violentata perché troppo "occidentale": 13 anni di carcere al padre e al fratello
Condannati rispettivamente a 5 e 8 anni due cittadini turchi a processo per maltrattamenti, minacce di morte e lesioni ai danni della figlia e sorella di 18 anni. La giovane era colpevole, ai loro occhi, di non rispettare la religione musulmana e di voler vivere secondo i costumi occidentali
2 minuti di lettura

di Giancarlo Oliani
MANTOVA. Pesante condanna di un padre e del figlio turchi, a processo per maltrattamenti, minacce di morte e lesioni ai danni della figlia e sorella di 18 anni. Era colpevole, ai loro occhi, di non rispettare i dettami della religione musulmana e di voler vivere all'occidentale.
Accogliendo le richieste del pm Giulio Tamburini, il tribunale di Mantova ha condannato Umit Keles, di 26 anni, a otto anni di carcere, e il padre Ahmet a cinque. Il primo è stato ritenuto colpevole anche di violenza sessuale nei confronti della sorella che ora vive in una comunità, sotto protezione.
La sentenza è stata accolta con apparente indifferenza dagli imputati. A presiedere il collegio giudicante Eleonora Pirillo che si è riservata novanta giorni di tempo per depositare la motivazione della sentenza, che ha escluso comunque l'aggravante della discriminazione razziale.
La vicenda. E' il 25 aprile 2010. Laura (nome di fantasia) torna a casa, a Poggio Rusco, e si imbatte nel fratello Umit. Quest'ultimo, per l'ennesima volta, le urla che non deve frequentare ragazzi italiani e che deve rispettare la religione musulmana, la offende e la minaccia pesantemente: «Se non mi obbedisci ti taglio la testa e la sotterro in giardino».
Subito dopo comincia a colpirla con calci e pugni alla pancia e al volto. L'amica italiana che è con lei tenta di difenderla, ma viene picchiata. La ragazza turca trascorre la notte a casa dell'amica che il mattino dopo la convince a presentarsi ai carabinieri. La ragazza turca ha il viso pieno di lividi ed ematomi. Non vuole nemmeno andare al pronto soccorso per paura di violente ritorsioni.
I carabinieri l'accompagnano all'ospedale di Pieve di Coriano dove, dopo le cure viene dimessa con 25 giorni di prognosi, e poi a casa per prendere gli abiti e rifugiarsi in una comunità. In casa c'è il fratello che in tono sprezzante dice ai militari di non temere la giustizia italiana e che la sorella deve rispettare la religione musulmana. Viene arrestato insieme al padre. Da allora si trovano in carcere.
In tribunale. «In quella famiglia - ha sostenuto nella sua requisitoria il sostituto procuratore Giulio Tamburini - l'elemento maschile ha una preponderanza assoluta sia in ordine decisionale che puntivo. Umit ha parlato molto chiaro. Il potere è dei maschi. Ma qualcosa è deflagrato. Qualcosa, in quell'equilibrio imposto, è saltato grazie a quella ragazza che si è ribellata alle violenze, alle ingiurie, alle percosse. Padre e figlio sono pericolosi perché non si rendono conto di tutto questo. Lei non sta alle regole? Si uccide».
«E' una famiglia simile a tante altre, con tanti screzi è vero, ma non mi sembra proprio il caso di scomodare l'Islam - ha replicato l'avvocato della difesa Michele Binelli - La ragazza poteva uscire, andare a scuola. Non solo. Se n'è anche andata di casa. E' tornata, ma non per questo è stata rinchiusa. Ha avuto più di un fidanzato e non le è stato impedito. Lei stessa ha detto che erano solo italiani. L'unica circostanza oggettiva sono le botte del fratello, ma non esiste aluna prova sulla violenza sessuale».
MANTOVA. Pesante condanna di un padre e del figlio turchi, a processo per maltrattamenti, minacce di morte e lesioni ai danni della figlia e sorella di 18 anni. Era colpevole, ai loro occhi, di non rispettare i dettami della religione musulmana e di voler vivere all'occidentale.
Accogliendo le richieste del pm Giulio Tamburini, il tribunale di Mantova ha condannato Umit Keles, di 26 anni, a otto anni di carcere, e il padre Ahmet a cinque. Il primo è stato ritenuto colpevole anche di violenza sessuale nei confronti della sorella che ora vive in una comunità, sotto protezione.
La sentenza è stata accolta con apparente indifferenza dagli imputati. A presiedere il collegio giudicante Eleonora Pirillo che si è riservata novanta giorni di tempo per depositare la motivazione della sentenza, che ha escluso comunque l'aggravante della discriminazione razziale.
La vicenda. E' il 25 aprile 2010. Laura (nome di fantasia) torna a casa, a Poggio Rusco, e si imbatte nel fratello Umit. Quest'ultimo, per l'ennesima volta, le urla che non deve frequentare ragazzi italiani e che deve rispettare la religione musulmana, la offende e la minaccia pesantemente: «Se non mi obbedisci ti taglio la testa e la sotterro in giardino».
Subito dopo comincia a colpirla con calci e pugni alla pancia e al volto. L'amica italiana che è con lei tenta di difenderla, ma viene picchiata. La ragazza turca trascorre la notte a casa dell'amica che il mattino dopo la convince a presentarsi ai carabinieri. La ragazza turca ha il viso pieno di lividi ed ematomi. Non vuole nemmeno andare al pronto soccorso per paura di violente ritorsioni.
I carabinieri l'accompagnano all'ospedale di Pieve di Coriano dove, dopo le cure viene dimessa con 25 giorni di prognosi, e poi a casa per prendere gli abiti e rifugiarsi in una comunità. In casa c'è il fratello che in tono sprezzante dice ai militari di non temere la giustizia italiana e che la sorella deve rispettare la religione musulmana. Viene arrestato insieme al padre. Da allora si trovano in carcere.
In tribunale. «In quella famiglia - ha sostenuto nella sua requisitoria il sostituto procuratore Giulio Tamburini - l'elemento maschile ha una preponderanza assoluta sia in ordine decisionale che puntivo. Umit ha parlato molto chiaro. Il potere è dei maschi. Ma qualcosa è deflagrato. Qualcosa, in quell'equilibrio imposto, è saltato grazie a quella ragazza che si è ribellata alle violenze, alle ingiurie, alle percosse. Padre e figlio sono pericolosi perché non si rendono conto di tutto questo. Lei non sta alle regole? Si uccide».
«E' una famiglia simile a tante altre, con tanti screzi è vero, ma non mi sembra proprio il caso di scomodare l'Islam - ha replicato l'avvocato della difesa Michele Binelli - La ragazza poteva uscire, andare a scuola. Non solo. Se n'è anche andata di casa. E' tornata, ma non per questo è stata rinchiusa. Ha avuto più di un fidanzato e non le è stato impedito. Lei stessa ha detto che erano solo italiani. L'unica circostanza oggettiva sono le botte del fratello, ma non esiste aluna prova sulla violenza sessuale».
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