«Un’etichetta su tre è una truffa». Ora la calza chiede regole chiare
Bondioli: i produttori stranieri che usano sostanze pericolose danneggiano imprese e consumatori. Bisogna controllare le merci che entrano dalle dogane

di Corrado Binacchi
INVIATO A ROMA
Regole certe, uguali per tutti i produttori, italiano e non, per stoppare la concorrenza sleale ed evitare rischi per la salute dei consumatori che acquistano prodotti stranieri contraffatti o con etichette fasulle. Le aziende della calzetteria e dell’intimo alzano la voce, portando il loro appello a Roma. A Palazzo San Macuto, a due passi dal Pantheon, nella sede della Commissione parlamentare di inchiesta sui fenomeni della contraffazione e della pirateria in campo commerciale. Gianni Fava, presidente della commissione, coordina i lavori.
E ascolta la denuncia di Luca Bondioli, presidente di Adici. «Le aziende italiane producono in maniera eccellente, rispettando parametri ben precisi. Denunciamo con forza seri problemi di contraffazione nel caso di merce prodotta all'estero, in particolare in Cina e Turchia. Le calze che entrano sul mercato nazionale in alcuni casi non hanno addirittura etichette, o se le hanno dichiarano spesso composizioni in fibre e denaratura (pesantezza del prodotto ndr) non veritiere, facendo concorrenza sleale alle calze prodotte dalle aziende mantovane e bresciane. Riguardo alle sostanze chimiche utilizzate in produzione, le aziende del distretto rispettano scrupolosamente quanto previsto dalle normative, anche per poter esportare i prodotti sui mercati internazionali. Purtroppo constatiamo che per i prodotti importati non c'è certezza del rispetto in termini di standard di sicurezza e sottolineiamo la mancanza di controlli».
La proposta condivisa con l’Associazione Tessile e Salute? Creare un Osservatorio nazionale dotato di poteri di controllo per frenare l'ingresso indiscriminato di prodotti sul mercato italiano. Il direttore di Tessile e Salute, Mauro Rossetti, va giù duro. «Ci sono già Paesi nel mondo che si sono dotati di organi di controllo sulla composizione dei capi di abbigliamento. Paradigmatico è il caso di un grande gruppo che produce in Cina capi di abbigliamento che non possono essere venduti nella stessa Cina perché non rispettano i parametri che il paese impone per l'accesso al suo mercato interno».
Non è solo un problema di etichette non veritiere. «Non dimentichiamoci - continua Rossetti - che i capi di abbigliamento, e specialmente le calze e l'intimo, possono dare seri problemi di salute nel caso siano stati trattati con sostanze pericolose, essendo prodotti che vengono e rimangono a contatto con la pelle per lungo tempo. L'applicazione del regolamento Reach, che dovrebbe garantirci su questo fronte, se non è realizzata in modo intelligente è destinata a creare ulteriori difficoltà alle imprese italiane».
L'obiettivo è quindi l'istituzione di un Osservatorio nazionale che possa controllare «se nella merce importata si trovino tracce di composti pericolosi, che anche se non vietati, possano essere al di sopra di limiti cogenti». «È l'unica strada possibile, perché anche in sede comunitaria si esca dall'attuale situazione di ambiguità, che permette i comportamenti scorretti e pericolosi. Se le imprese italiane, e in prospettiva europee, non possono usare una certa sostanza chimica, allora la stessa non deve assolutamente poter essere presente nei prodotti importati».
Il presidente di Adici insiste sul punto, snocciolando i risultati dell’indagine autoprodotta prelevando campioni di calze e intimo nei centri commerciali, nei discount e nei negozi: «Ben il 15% dei prodotti esaminati risulta sprovvisto di etichettatura, e il rimanente 34% del campione riporta composizione non veritiera, filati non dichiarati, con i rischi che ne possono derivare per la salute del consumatore. In altri termini i consumatori possono trovarsi ad acquistare capi dichiarati per esempio in lana quando in realtà sono realizzati in filati d'altro genere, meno nobili, come l'acrilico. Per quanto riguarda le sostanze pericolose, nel 4% dei casi abbiamo trovato ammine aromatiche cancerogene, nel 4% coloranti allergenici, nel 6% metalli pesanti e nel 4% formaldeide. E un caso su dieci di dermatiti da contatto deriva dalla presenza di queste sostanze».
«Il Ministero della Salute - insiste Rossetti - in passato si è dichiarato pronto ad essere coinvolto in questa partita. Si tenga conto che il 100% dei casi in cui si sono avuti problemi di salute connessi a capi di abbigliamento, in particolare di contatto tra pelle e tessuto, ha visto coinvolti capi di provenienza estera». «L'Osservatorio non può essere la soluzione a tutti i problemi del settore - conclude Bondioli - ma sarebbe comunque un grosso aiuto nell'immediato alle nostre aziende».
I commenti dei lettori