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L’ultimo internato torna nel lager: così sfuggii ai nazisti

Sebastiano Lombardo Facciale ha 90 anni. Nel 1943 fu internato nel campo di concentramento che i nazisti allestirono a Mantova dietro al cimitero ebraico. Oggi racconta alla Gazzetta di Mantova come riuscì a fuggire dai nazisti e e di quante persone coraggiose lo aiutarono

di Monica Viviani
3 minuti di lettura

MANTOVA. «Quella è la garitta dove stava la guardia»: Sebastiano Lombardo Facciale, classe 1923, si appoggia al bastone, allunga la mano attraverso le sbarre e per un istante i suoi occhi a tratti lucidi sembrano perdersi in un vortice di ricordi. Lo guardi mentre con le sue mani ancora forti tiene il braccio del figlio, mentre punta lo sguardo al di là di quel cancello su cui sono rimasti un paio di cartelli a raccontare solo una parte di storia: «Ex zona militare», «Scuola di protezione civile».

ddLo guardi e pensi che deve essere come ritrovarsi catapultati in un flash back di vita vera e che forse è per questo che prima d’ora qui non era mai tornato. Più di settant’anni sono passati da quando scappò da questo enorme spiazzo dietro al cimitero ebraico, trasformato dai nazisti in campo di concentramento, ma lui la strada per arrivarci se la ricorda ancora.

Sebastiano Lombardo Facciale oggi vive in via Trieste, compirà novant’anni l’11 settembre e li festeggerà nella sua Sicilia da dove partì soldato e dove torna ogni anno d’estate. «Sono in fanteria e sono di stanza alla caserma di Colorno a Parma»: il fiume dei ricordi parte da quella mattina dopo l’8 settembre 1943 quando «un carro armato tedesco sfonda il portone, le armi puntate addosso, urlano, ci buttano a mucchio nel cortile, ci scaraventano come sacchi di patate sui camion. Ci fanno viaggiare per due giorni coperti dai teloni e quando arriviamo siamo convinti di essere in Germania, ma con me c’è un sottotenente di Roverbella che riconosce la zona: è Mantova».

Per dormire c’è solo il riparo di «alcuni carretti rovesciati», da mangiare «non ce ne danno» e «tutte le mattine ci ripetono che dobbiamo collaborare o moriremo». Si sa che i soldati italiani prigionieri entro pochi giorni dovranno partire per la Germania, deportati. Si sa che «chi firma un foglio parte e gli danno subito due pannocchie da mangiare». Ma lui no, lui non firma.

Sebastiano si ferma, prende fiato e sembra quasi rabbrividire al ricordo di quel prete «che viene al campo, si mette due tuniche una sopra l’altra per travestire chi di noi sta male e farlo scappare durante il cambio della guardia, ma i tedeschi lo scoprono, lo legano a un palo e lo lasciano morire lì». Di quando «mi avvicino troppo alla baracca dell’infermeria e un tedesco mi dà uno sberlone che mi rompe il naso, mi sbatte a terra, un piede sul petto, la pistola alla tempia e continua a urlare Raus Raus!».

Ma oggi quello che fa davvero male è la memoria. «Il mio amico di Roverbella mi dice che dobbiamo scappare: in mezzo al campo c’è un pozzo asciutto collegato a un canale che porta sul lago al Buco del Gatto». Ascolti la sua parlata siculo-mantovana e pensi che certe cose le hai viste solo nei film mentre lui ti racconta di quella «vasca profondissima» coperta da una lastra di marmo «che spostiamo di notte per gettarci dentro materassi e coperte che attutiscano la caduta», di quella corda fatta di nascosto annodando lenzuola, mentre ripercorre ogni istante di quella notte.

«Va per primo quello di Roverbella, dà due strattoni alla corda, è il segnale che possiamo seguirlo, io sono il terzo a scendere, ma quando esco fuori mi ritrovo in acqua, non so nuotare, mi aggrappo a un legno che si rompe... il rumore... la sentinella di guarda lo sente, punta il faro verso di me, spara cinquanta colpi...sento le pallottole sopra la testa, ma riesco a raggiungere la boscaglia. Corro senza sapere dove finchè sul fare del giorno vedo un contadino».

A Montata Carra incontra il primo di una lunga serie di mantovani che lo aiuteranno. Da qui viene portato a Villanova Maiardina «nascosto su un carro in mezzo alle balle di fieno che al posto di blocco i tedeschi trafiggono con un punteruolo». Qui è ospite per due anni della famiglia di Giovanni Furgoni «che mi ha trattato come un figlio, nascondendomi e dandomi da vivere». Qui gli capita anche «di aiutare due suore a fuggire».

«Un giorno arrivano dei tedeschi e chiedono di mangiare, io dalla stalla vedo che il telone del loro camion si muove, mi avvicino e scopro quelle due prigioniere, le faccio scendere, le nascondo, i tedeschi sono talmente ubriachi quando ripartono che neppure se ne accorgono».

Poi arriva il giorno del “tutti a casa” e Sebastiano riprende la via della Sicilia, ma il dopoguerra non è come aveva sperato, il lavoro in campagna non dà i risultati sognati così «quando Furgoni mi dice “ti aspetto”», nel 1956 Sebastiano carica in treno moglie e due bambini piccoli e torna a Mantova, nonostante tutto. Qui lavorerà in cantieri come quello per la costruzione della Burgo, crescerà figli e nipoti raccontando del campo di concentramento dietro al cimitero ebraico «o di quando in Sicilia il bandito Giuliano venne e mi portò via i cavalli». Ma questa è un’altra storia.

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