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La bomba-emigrazione fa rischiare il mondo

Il monito di Vargas Llosa: se non risolviamo il problema la violenza dilagherà. Il Nobel peruviano incanta il pubblico. Presto un libro sul Barrio di Lima

Maria Antonietta Filippini
3 minuti di lettura

Il Premio Nobel a Mario Vargas Llosa il pubblico del Festivaletteratura glielo ridarebbe subito. Perché lo ha scosso, nell'evento di chiusura in piazza Castello - gremita, inutile dirlo - con quel suo «scrivere e ancora leggere rende migliori, suscita un altro punto di vista, aiuta a capire la vita, il dolore, le relazioni tra le persone». Per questo «non c'è menzogna in un buon romanzo, anche quando non rispetta la verità storica». Come in Guerra e pace di Tolstoj, che ha riletto a distanza di tanti anni. «Mi ha dato le stesse sensazioni. Le battaglie napoleoniche sono filtrate dal nazionalismo russo, ma la paura della morte in battaglia, l'orrore, sono universali».

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E questa è la forza della letteratura. Un uomo non diventa uno scarafaggio, osserva lo scrittore peruviano, ma «Kafka lo rende vero e potente».

Oggi, quale libro è più "urgente", gli ha chiesto Ernesto Franco, che ha condotto l'intervista, tradotta benissimo da un’interprete di valore. «Si celebrano i 400 anni di Shakespeare e di Cervantes - ha osservato Vargas Llosa -, ottima occasione per rileggerli. Ma aggiungerei Dante, Omero…». E qui l'ha fermato Franco, chiedendogli un'altra urgenza, un evento del passato. «La disintegrazione dell'Unione Sovietica e del sogno di milioni di persone che potesse esistere una società perfetta, libera, senza povertà e senza sfruttamento. Ma questa utopia ha creato l'inferno. E' stato un fenomeno straordinario, con possibilità che si sono perse, disgraziatamente».

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L'ordine delle domande era diverso. La prima, che mettiamo in coda, era: cosa è urgente oggi, per capire questo momento storico?

«L'emigrazione - ha detto con fermezza Vargas Llosa -. Milioni di esseri umani che vivono nell'orrore, nella miseria, nella mancanza di sicurezza e di libertà. Queste persone sanno che altri Paesi questi problemi se li sono lasciati alle spalle e cercano di raggiungerli sognando una vita decente. Se il mondo non affronta questo dramma, potrebbe cadere in una violenza ancora più terribile».

E qui si lega la domanda su quanto conti per lui la ricerca delle fonti. Per Il sogno del Celta, lo scrittore peruviano fece un viaggio in Congo. «Come latino americano credevo di conoscere la miseria e la violenza. Ma non ho mai vista tanta miseria e tanta violenza come nel Congo, tanto grande e tanto potenzialmente ricco».

La sua ricerca, ha proseguito, non è quella dello storico o di scrive un saggio sociale. «Io vado a sentire gli odori, a vedere i paesaggi e le persone per creare la mia menzogna con cognizione di causa. E in quel luogo mi vengono idee che sviluppo».

La fantasia è quella che gli fa inventare le storie che, ha spiegato, partono sempre dalla memoria, «da qualcosa che ho vissuto o visto, ma resta un mistero perché alcune memorie mi obbligano a scrivere, e altre non lasciano traccia. Dipenderà dal subconscio». Non per tutti gli scrittori è così, ha aggiunto. «Ma per me sì. Può essere anche la memoria di un'altra persona. Mi è successo con la narrazione che lo scrittore brasiliano Euclides da Cunha fa di una storia tragica di fine Ottocento. Mi ha colpito così tanto, che ho dovuto scrivere La guerra della fine del mondo».

Una sua vecchia battuta è che lo scrittore è come una spogliarellista al contrario: parte nudo e si veste attraverso le storie con cui copre la verità che gli preme dentro. La letteratura è importante perché «obbliga il lettore a impegnare la sua intelligenza, l'immaginazione, il linguaggio. Molto più dello schermo, che nonostante una certa creatività anche delle serie televisive, lo vede più spettatore passivo». E l'uomo, da sempre, «ha bisogno della narrazione, della finzione raccontata, per il suo desiderio di vivere la vita degli altri, di un altro tempo, un altro luogo. Un mondo più straordinario del suo. E questo percorso lo aiuta a capire se stesso e gli altri».

Nel libro quanto è importante il finale? «Per me conta di più l'inizio, è lì che lo scrittore aggancia il lettore». E, dopo aver citato a memoria le prime parole del Don Chisciotte di Cervantes e di Moby Dick: «Nel dire: Chiamatemi Ismaele, non mi chiamo Ismaele, Melvillle ti ha già catturato». De La condizione umana, Vargas Lllosa ha impresse la zanzariera, il coltello, il sangue dell'incipit. «Il finale, invece, non me lo ricordo». La fantasia pura non é la sua, ma piuttosto di Borges, «la sua originalità sta proprio nell'incredibile fantasia legata all'esattezza, alla precisione del linguaggio».

L'anno prossimo uscirà un nuovo libro: in spagnolo è intitolato 5 Chinos. «È il nome di un Barrio di Lima, con palazzi dell'epoca coloniale, bellissimi, ma in rovina. È pericoloso, molto violento, c'è traffico di droga, criminalità, un mondo marginale. Io seguo le storie di alcuni personaggi che vengono da quel mondo e ne escono. Il libro è molto più bello di quello che vi sto dicendo».

Il pubblico lo ha salutato soddisfatto, ma con la curiosità di una domanda non fatta. Che avrebbe potuto seguire alla risposta sull'utopia del comunismo. E oggi? E il neoliberismo dominante? Ma forse un Premio Nobel stimola, non ha ricette, è solo un uomo.

 

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