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C’era una volta il latte a domicilio nella città delle 120 mercerie

I mantovani se n’erano accorti da soli delle tante vetrine spente, comunque il Comune ne ha contate 45, messe a disposizione di futuri, possibili e auspicabili inquilini. I negozi chiusi sono ono principalmente in centro, a immalinconire le vasche, le vie dello shopping e della movida.

di Renzo Dall'Ara
2 minuti di lettura

MANTOVA. I mantovani se n’erano accorti da soli delle tante vetrine spente, comunque il Comune ne ha contate 45, messe a disposizione di futuri, possibili e auspicabili inquilini. I negozi chiusi sono principalmente in centro, a immalinconire le vasche, come direbbe ancora il cronista vostro o le vie dello shopping e della movida, definizione d’oggi.

Certo che la ruota del tempo e delle leggi di mercato è stata inesorabile, cancellando le “botéghe”, i negozi di vicinato. Con me credo ci siano ancora tanti altri che possono rivivere nella memoria la Mantova tra gli anni tra i ’50 e i ’60, con la ricostruzione dalle rovine della guerra e la straordinaria voglia di fare, in tutti i sensi. Era una città, quella, con 173 vendite di generi alimentari; 100 di frutta e verdura più 80 ambulanti; 83 fornai (pane e pasta); 15 di polli e selvaggina ma il doppio gli ambulanti, con le gabbie delle galline e capponi vivi sulla bicicletta.

La carne bovina si comprava, potendolo una volta alla settimana, dai “bechèr”, i macellai, che erano 42, più 9 macellerie equine. Incredibile, sul metro d’oggi, il numero delle 95 latterie, quelle con i bidoni del latte sul trespolo, i recipienti di misura dei quantitativi da riversare poi nei “volìn”, i pentolini dei clienti, che i ragazzi (anca mi) volteggiavano tornando a casa, senza che ne uscisse una goccia (salvi disastrosi incidenti di volteggio).

Il latte poteva arrivare anche a domicilio, con il carretto a mano della Latteria Sociale Mantovana: partiva dalle Sguasadòre, oggi vicolo Stabili, per il suo giro, pilotato da un bravo ometto, il Pilati.

Ma era latte in bottiglia, pastorizzato, termine tradotto dal nonno in “pastrocià” e categoricamente rifiutato, per lasciar spazio alla bollitura del fresco, con non infrequenti eruzioni magmatiche dal pignatìn alla piastra della stufa.

Fin qui il solo mangiare domestico ma, “par far mia masnàr sut al molìn”, non far girare all’asciutto il molino, al bere provvedevano 120 osterie e bottiglierie, mentre per acque minerali e gassate, birra e bibite bastavano 7 indirizzi, compreso Fabbrica Milanese Imbottigliamento Bevande Gassate Coca Cola, via Bettinelli 14. Inoltre, 82 caffè e bar: frequentatissimo il Bar Sport, sotto i portici di corso Umberto, con la ressa davanti perché esponeva i tabelloni con gli ordini d’arrivo del Giro d'Italia e del Tour.

Ma riandiamo anche a quando Berta filava: 120 mercerie e, in più, 70 ambulanti, i “mercantìn”, categoria comprensiva dei 60 che vendevano tessuti, lasciando ad altre mode ed eleganze gli 80 negozi di confezioni per signora ed i 75 di tessuti.

Potevano accadere casi particolari (e non sarà stato il solo) di strade - galleria delle vetrine, come Breda d’mès, via Montanara Curtatone: non proprio centrale ma con, gomito a gomito, tre fruttivendoli (numeri 14, 93, 107); tre latterie (al 24, 49, 103); tre mercerie (al 34, 84, 93); due salumerie (numeri 49 e 70); due osterie (al 56 e 76). In più calzolaio, falegname, barbiere, sarto, pellicciaio, modista, meccanico di biciclette, elettricista, autista di piazza (taxi non si chiamavano ancora). Segno dei tempi nuovi, al 58, Vespa dei fratelli Filippini. Altro che chilometro, centimetro zero.

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