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La mano della 'ndrangheta: giovedì via al processo

Udienza preliminare dell’inchiesta Pesci dell’antimafia di Brescia. Rush finale dell’accusa che sabato ha depositato nuovi atti d’indagine

di Rossella Canadè
2 minuti di lettura

MANTOVA. La parola d’ordine è “ci vediamo in aula”. Accelerare i tempi delle udienze preliminari, fare buon viso a cattivo gioco alle accuse dei procuratori antimafia bresciani, Paolo Savio e Claudia Moregola, sintesi delle ottocento e passa pagine dell’informativa dei carabinieri mantovani, e presentarsi al processo di aprile in via Poma con il coltello tra i denti, pronti a dare battaglia.

I venticinque avvocati dei ventotto imputati dell’inchiesta Pesci, che giovedì debutta nella camera di consiglio del palazzo di giustizia di Brescia, sembrano avere lo stesso imperativo categorico di togliersi di dosso quell’aggravante che pende in maniera insostenibile sulle loro teste: mafia. Se per qualcuno, come Nicolino Grande Aracri e nipoti, i muratori Giuseppe Loprete, Antonio Rocca e Francesco Lamanna e l’affarista parmigiano Paolo Signifredi, l’ipotesi è quella di aver proprio costruito un’associazione criminale di stampo mafioso sotto la lunga mano proprio di Nicolino “mano di gomma”, utilizzando i metodi tutti muscoli, parole forti e minacce distintivi della cosca, mettendo in ginocchio gli imprenditori edili della zona, costretti a sottostare ai loro tentativi di estorsione, per altri le accuse sono “collaterali”.

Per Antonio Muto, ad esempio: se per il tribunale del Riesame è vittima di «un difetto della gravità indiziaria», per gli stessi pm non può essere considerato un sodale dell’associazione mafiosa, ma un fiancheggiatore: “concorso esterno”, in gergo tecnico . E l’ex sindaco Nicola Sodano, con il suo comportamento nell’affare Lagocastello, favorendo l’amico conterraneo avrebbe agevolato le attività della cosca. “Inconsapevolmente” secondo la sua linea difensiva, tesa innanzitutto a smontare proprio il benedetto articolo 7 che lo tiene incollato nell’aula del processo istruito dalla Dda.

Senza questo rinforzino, contro cui Sodano ha tuonato in tutti questi mesi, le accuse di corruzione, anche in atti giudiziari per l’affaire Lagocastello, -che vede sotto accusa anche l’ex senatore Franco Bonferroni, il mediatore Tarcisio Zobbi, il faccendiere veronese Attilio Fanini, l’ex presidente del Consiglio di Stato Pasquale De Lise e l’ex senatore Luigi Grillo- e di peculato, per l’ormai arcinota giornata nei piani alti della capitale con i soldi del Comune, sarebbero molto meno indigeste.

«Smonteremo le accuse al processo» annuncia Sergio Genovesi, codifensore dell’ex sindaco al fianco di Luca De Antoni. Cercheranno di uscire prima dalla comitiva i personaggi minori, come il brasiliano De Silva, coinvolto dal muratore Rocca (per i carabinieri del nucleo investigativo il rottweiller della cosca per il controllo dei cantieri mantovani) in un giro di assegni a scopi di “lavanderia”, ma anche un nome di punta per il mondo degli affari come quello di Attilio Fanini, per la Dda l’intermediario delle corruzioni al Consiglio di Stato.

«Chiederemo immediatamente l’assoluzione e usciremo da questa inchiesta – afferma convinto il suo legale romano Alessandro Diddi, impegnato in questi giorni anche a difendere Salvatore Buzzi in Mafia Capitale - non c’è uno straccio di prova dei contatti con queste persone per la vicenda Lagocastello. Avevamo chiesto di essere sentiti ma la Procura non ce l’ha consentito».

Giovedì via alle danze, appunto. Con una sorpresina dell’ultima ora che ha rovinato il week end ai difensori. Sabato pomeriggio alle 14, quando è facile immaginare che gli studi degli avvocati siano deserti, è arrivata una comunicazione via Pec dalla Procura di Brescia. La mail in posta certificata notificava il deposito di ulteriori atti d’indagine della Pesci. Potranno essere visionati e ritirati da oggi, ovviamente. A soli tre giorni dall’udienza di Brescia.

Se qualche avvocato lo considera semplicemente un “tiro mancino” degli accusatori, altri se ne infischiano delle dietrologie e temono invece che le ultime carte, arrivate come un Calvados d’annata quando il prezzo della cena sembrava già fissato, siano un pugno nello stomaco: la preoccupazione è che contengano elementi (indizi, intercettazioni e prove documentali) tali da doverli costringere a ribaltare le linee difensive.

E il viavai di queste ultime settimane dalla caserma di via Chiassi al palazzo di giustizia di Brescia sembra avvalorare questa ipotesi.

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