Il racconto di Lidia, bambina ebrea in fuga dai nazisti
Figlia del dottor Gallico, colpita dalle leggi razziali. La salvezza in Svizzera grazie anche a due famiglie
di Maria Antonietta FilippiniMANTOVA. L’infanzia di Lidia Gallico è stata avventurosa, ha rischiato di venire presa e morire nei lager come l’amica Luisa Levi. Lidia si è salvata, come i suoi genitori. Ma se il lieto fine è stato possibile, racconta Lidia con il suo sguardo sorridente e lievemente ironico, è stato grazie a tante persone buone: da Mantova, a Castellucchio, fino a Bellinzona in Svizzera, dove i Gallico sono rimasti profughi fino alla fine della II guerra mondiale.
E oggi Lidia Gallico, 83 anni, vorrebbe ritrovare quei piccoli “Giusti fra le nazioni”, i Madini di Castellucchio e i Nicoli di Vall’Alta di Albino nella Bergamasca. La sua storia è racchiusa nel libro Una bambina in fuga”, Gilgamesh Edizioni, con una introduzione di Maria Bacchi, che dà una ricostruzione storica ai ricordi infantili di Lidia. I Madini offrirono il primo riparo al dottor Enzo Gallico, che aveva lo studio medico vicino al teatro Sociale.
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«Con le leggi razziali del 1938 – racconta la figlia Lidia – gli fu tolto l’incarico di medico condotto, poteva visitare solo pazienti privati. L’8 settembre 1943 capì il pericolo e andò a Castellucchio. Giorni dopo, venne da noi un ufficiale tedesco ad annunciare che un medico militare avrebbe occupato l’ambulatorio, noi potevamo restare nell’appartamento, “più sicure di così…”, disse. Mamma non aspettò. E raggiungemmo papà nella corte agricola». Da quel momento comincia l’odissea, con spostamenti ogni volta dettati dalla paura, «soprattutto quella di mettere in pericolo anche chi ci stava aiutando».
A Castellucchio, ad esempio, a un certo punto i tedeschi cominciarono a girare per le corti, «cercavano cibo, macellatori clandestini, partigiani». Vicino alla corte, c’era la ferrovia e Lidia con i bambini dei contadini andava a portare cibo ai soldati italiani sui treni per la Germania. «Erano giovanissimi. Davamo loro poco, gradivano molto le sigarette. Ne davo due a ciascuno, poi mi limitai a una. Ma quando un ragazzo mi stese il braccio erano finite. Mi disse: dammi il pacchetto vuoto, lo terrò per ricordo. Chissà se ce l’ha fatta. Tanti morirono di stenti». Il macchinista, in quel punto rallentava. «Ma un giorno, il treno non ridusse la velocità e vidi accanto al ferroviere, un soldato tedesco».
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E i Gallico partono per Albino, dove si era rifugiato uno zio, prima in albergo, poi per non dare nell’occhio nella baita di montagna a Vall’Alta, del “Barbù” Nicoli, dove Lidia è felice di giocare sui prati con altri bambini. Il libro riporta le lettere di Lidia ai genitori, quando in Svizzera saranno divisi, il “diarietto” dell’adolescente e alcune fotografie. Ed emerge la personalità di una bambina che riesce a resistere e guarda sempre avanti, con le emozioni e i sentimenti della sua età, che il tempo non cancellerà. Come la gratitudine per Maria Savazzi, la domestica che accompagnò Lidia e la mamma nella prima fuga in corriera o per Rosa Cerati. Sentimenti di riconoscenza, ma anche ferite ancora aperte. Lidia ricorda la delusione quando nella scuola oggi intitolata a Luisa Levi, invece di entrare in prima con le altre bambine, fu mandata nella pluriclasse mista per “fanciulli di razza ebraica”.
«Facevamo ricreazione quando gli altri erano a lezione. Il maestro era un direttore didattico degradato perché dal cognome Rovighi lo avevano creduto ebreo». La fuga in Svizzera costò ben 25mila lire a testa, con passaggi organizzati da un federale fascista. Come i profughi di oggi che viaggiano su barconi a caro prezzo, una volta arrivati non si era ancora sicuri. «Ci interrogarono a lungo, separatamente, volevano capire se uno era disposto a tutto pur di rimanere.
Molti venivano rimandati indietro, non considerati abbastanza in pericolo. Speriamo che si siano salvati» commenta Lidia perplessa. E qui è interessante la ricostruzione di Maria Bacchi sulle politiche svizzere di accoglienza dei rifugiati. Almeno metà dei profughi furono riportati in Italia. Ne parlava nel 1995 il musicologo Claudio Gallico, cugino di Lidia, intervistato da Maria Bacchi. E non sembrano parole di vent’anni fa. Lei, Lidia, cosa farebbe oggi con i profughi che premono alle porte dell’Europa? «Io non respingerei nessuno, ma poi c’è la politica, non so cosa dire».
Lidia in Svizzera sarà separata dai genitori, respinta da una signora che si era offerta per accogliere una bambina, e finirà in un collegio di suore, dove finalmente potrà studiare e farsi delle amiche, come Yvonne con cui è ancora in contatto. «Le suore non pretesero mai che andassi a messa e anzi lasciarono venire un rabbino a trovarmi».
IL RITORNO. Lidia Gallico tornata a Mantova nel luglio 1945, riprende la sua vita: Liceo classico Virgilio, università Bocconi a Milano, facoltà di lingue. Qui diventa amica della sorella dell’uomo che sposerà, Ippolito Cazzaniga Donesmondi. «Andavo sempre a studiare da lei per vederlo» ammette oggi. La coppia ha avuto tre figlie: Eleonora avvocato, Lorenza traduttrice e Cecilia insegnante. Lidia ha poi abitato con la famiglia in una bella casa del Quattrocento in via Fratelli Bandiera, che era stata della nonna Rimini. Nel suo albero genealogico ci sono tanti cognomi della Mantova ebraica, Gallico, Rimini, Franchetti.
Ma anche il marito Ippolito non scherza. Un suo avo Donesmondi nel 1328 consegnò a Luigi Gonzaga le chiavi di Mantova, dopo la cacciata dei Bonacolsi. I Donesmondi arrivarono dalla Germania nel IX secolo. Molto famoso è proprio Ippolito Donesmondi che nel 1612 scrisse la Storia ecclesiastica di Mantova. Con il tempo si è poi aggiunto il cognome Cazzaniga, di origine bergamasca. (maf)
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