Maroccolo da applausi: il re dell'indie incanta
Abbiamo seguito il bassista e produttore in due serate, a Brescia e Verona. Ecco il racconto di un'esperienza imperdibile per gli amanti della musica indipendete italiana
Luca CremonesiMANTOVA. Dici Gianni Maroccolo e per chi mastica parecchia musica dici una fetta consistente della storia musicale italiana degli ultimi 40 anni. Se poi selezioni un poco, stai parlando, nominando Maroccolo, della Storia, con la S maiuscola, della musica Indie made in Italy. Se a questo nome, poi, affianchi quello di Antonio Aiazzi hai nei tuoi pensieri una consistente parte della miglior musica Indie prodotta nel nostro Paese.
Se questi due nomi diventano due persone fisiche, sedute una accanto all’altra, al centro di un palco (luogo dove non sono soliti stare), allora puoi scommetterci che sarà una sera di grande musica. E così è stata. Brescia (Molloy) e Verona (Teatro Fonderiaperta) sono solo due tappe del tour che Gianni Maroccolo sta portando in giro per l’Italia. Due date ravvicinate, ma profondamente diverse. Alla Latteria (nominata miglior location live d’Italia per la musica Indie nel 2015) il concerto soffre lo spazio; a Verona, invece, il nuovo teatro ricavato dentro un’ex fonderia didattica è la location ideale per un concerto che predilige il suono, la musica e l’ascolta.
Il canto non è affatto in secondo piano, dato che alla voce Maroccolo sceglie Andrea Chimenti, ma è indubbio che il concerto, come dichiara Maroccolo, nasce “per divertirmi suonando liberamente, evitando il più possibile gabbie, schemi e tutti i classici stereotipi dei concerti moderni”. Che questa sia l’atmosfera è chiaro fin dall’inizio dato che la band è tranquillamente al bar che beve il caffè, prima della prova generale, e si intrattiene con il pubblico che piano piano arriva in sala. “Posso fare una foto con te Gianni?” gli chiedo. “Sì, meglio ora”, mi risponde, “che dopo il concerto, non si sa mai che non ti sia piaciuto”. Umiltà di un grande artista che, a 55 anni, “con nulla da dimostrare, né tanto meno da chiedere”, afferma sorridendo, si è messo davanti, in prima fila, al centro del palco, lui che per anni è rimasto dietro, solitamente alla destra del pubblico, in penombra.
Con lui, sul palco, musicisti che hanno alle spalle una storia importante nel panorama della musica italiana: Antonio Aiazzi (Litfiba, Beau Geste fra gli altri), Andrea Chimenti (cantautore fra i più interessanti della new wave italiana), Simone Filippi (Ustmamò) e Beppe Brotto (poliedrico musicista che suona tutto quello che ha una corda, in particolare modo, in questo live, viole indiane). Al gruppo si aggiungono due ospiti, Alessandra Celletti (pianoforte) e Ivana Gatti (canto e theremin).
[[(gele.Finegil.Image2014v1) Beppe Brotto]]
Il progetto di Maroccolo nasce non come omaggio, e ci tiene a dirlo dopo il primo lungo pezzo d’apertura, ma come racconto “degli incontri che ho avuto la possibilità di realizzare nella mia vita. L’ultimo, in ordine di tempo, è stato con Claudio Rocchi”. Da questo incontro è nato l’album VDB32/Nulla è andato perso, progetto realizzato da Maroccolo e Rocchi prima della prematura scomparsa di quest’ultimo.
“Della morte, sinceramente” afferma Maroccolo, “non me frega molto. Si cambia dimensione, si diventa altro. Nella vita ci sono partenze, ripartenze e viaggi, il concerto a cui assisterete parla di tutto questo, e degli incontri che, nel mio caso, hanno determinato le mie ripartenze”. Solo allora realizzi che Maroccolo ha fondato i Litfiba (con Aiazzi), i Beau Geste, i CSI, gruppi ai quali ha partecipato fisicamente, in prima persona, sul palco, come bassista. Poi ti viene in mente che ha prodotto, fra gli altri, i Marlene Kuntz, i Diaframma, i Timoria, gli Statuto e la Bandabardò. Con lui hanno lavorato in tanti, tra cui Battiato, che viene omaggiato subito, con Aria di tempesta. Ma non mancano gli omaggi a Zamboni e Ferretti, compagni nei CSI, “amici con i quali poi ci siamo ritrovati, dopo anni di litigi feroci”. Inquieto e Annarella, suonata come bis, con piano, voce, viola indiana e basso è da pelle d’oca per l’intensità che sa trasmettere questo testo. I primi Litfiba vengono eseguiti in grande complicità con Aiazzi, “pezzi a cui siamo molti legati”, e ha dell’incredibile pensare che da Peste, Versante Est e La Battaglia si sia poi arrivati a Il mio corpo che cambia (Aiazzi e Maroccolo era già via, da tempo…).
La scaletta è comunque costruita sull’album scritto con Rocchi e lo show di Verona, in omaggio anche alle origini venete del padre di Maroccolo (“vengo da qui, famiglia di mezzadri, poi mio padre entra nell’Arma e ci spostiamo, iniziamo a viaggiare. Sono in tour da sempre; tutta la mia vita è una tournée, non ho un luogo dove tornare se non la Sardegna, come terra dove ho trovato anche l’amore della mia vita”) si apre con la lunghissima (20 minuti e 19 secondi) Rinascere Hugs Suite. A seguire un mix di pezzi dell’album e di storia passata con anche omaggi come a Vinicio Capossela, a Philip Glass, ma anche ai progetti da solista di Andrea Chimenti.
Concerto intenso, realizzato in una location che ha restituito il senso intimo del progetto costruito da Maroccolo. “Ho atteso, ho aspettato, non ho mai avuto fretta” racconta, “e ora ho avuto il tempo per mettere in scena un concerto proprio come volevo io”. Suono e ascolto, i pilastri del fare arte e del fare musica di Gianni Maroccolo. Artigianato di alto livello. Parlare di artigianato, in Italia, è sempre complicato, soprattutto quando lo si riferisce all’arte. In parte è un modo per elogiare il lavoro “non commerciale” di molti artisti, dall’altro lato sembra di affermare una povertà di mezzi che, di fatto, fa di necessità virtù. Non è il caso di Maroccolo.
[[(gele.Finegil.Image2014v1) Maroccolo con Ivana Gatti]]
Qui la musica è di casa, e la scelta di percorrere altre vie da quelle commerciali è stata una decisione consapevole per prediligere la musica suonata e da ascolto, contro invece una musica di consumo (ricordo che gli anni dei CSI tributano un successo al di del semplice club underground, ma fu lo stesso per i Litfiba fino all’album “3”). Lo si vede guardando il concerto, lo si percepisce osservando l’intensità dei musicisti, curvi sui loro strumenti, assorti nei loro suoni, catturati dalle loro trame. Due ore che volano, ma non perché sono leggere, ma perché lasciano il segno di un ascolto non banale, e non solo per i testi. Le trame sonore, la ricerca ritmica, i suoni modulati, creati e rimaneggiati sono la matrice di un fare musica che è di lato livello e non cifra di una virtù che deriva dalla mancanza di mezzi.
Maroccolo porta in giro per l’Italia quello che ha sempre fatto: la musica, suonata per davvero, e suonata dal vivo, con anima e corpo. Lo si vede nelle espressioni del volto, nel suo modo di abbracciare il basso (il suo basso, l’unico che lo segue sul palco, e che si vede, dai segni del tempo, che è al suo fianco da molto…), nell’onestà con cui parla al suo pubblico, senza cercare di lanciar messaggi, senza voler dire altro da ciò che comunica la sua musica. Maroccolo e i suoi musicisti confezionano un concerto in cui ascoltare è decisivo come gesto di resistenza a spettacoli di mero consumo. Questa musica, queste emozioni, questa intensità, non si disperdono all’uscita. Restano dentro. Scavano. Sono emozioni nate da incontri reali che la musica ha saputo trasformare in suono. Il suono, eseguito in questo show, restituisce la potenza di questi incontri. Il miracolo avviene. Qui si ascolta musica e si assiste all’accadere di un atto artistico: semplici note, ben eseguite, prendono vita e diventano pura emozione. Maroccolo saluta, ma ciò che ha messo in scena viene via con noi, e se ne va anche con lui. “Non è facile suonare questa musica, ci sono emozioni forti in gioco, credetemi”. Non è un atto di fede, ma è ciò che davvero accade in queste due ore.
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