Il vescovo: gridiamo pace per la Siria
Busti scrive per la Gazzetta una riflessione sulla guerra che sta dilaniando il paese: e il popolo muore
Monsignor Roberto BustiEcco: finalmente ho risolto il risiko della guerra di Siria! I russi contro il Daesh; i ribelli qaedisti contro Assad; il Califfato contro Assad, ma anche contro i curdi e i qaedisti; i turchi contro la coalizione assadista; gli impavidi curdi che a Kobane - con armi fornite da Europa e Usa - hanno scalzato gli uomini del Califfo, in Siria sostengono il dittatore guerreggiando contro Daesh e gli anti-Assad; più a sud gli Hezbollah libanesi, armati dall’Iran, cannoneggiano gli avversari del rais.
È tutto? No! Dove sono i combattenti dell’Ypg e dell’Isis che si sono affrontati tra Siria e Turchia vicino a Kobane? E con chi ce l’hanno i carri armati turchi schierati proprio lì, in attesa di compiere “quell’azione di terra necessaria”, se possibile in sintonia con gli alleati? Ma quali alleati? Quelli dei caccia russi le cui bombe “intelligenti” non rispettano gli ospedali e fanno strage anche di bambini? Loro dicono di no: ma c’è qualcuno che dice la verità? Come non andare a quella domanda intrisa di disprezzo, compassione e forse anche di tristezza, fatta da un Pilato interiormente diviso, che sapeva dove dirigere la sua sentenza, andando però a sbattere contro quelli che avrebbero distrutto la sua carriera e messo a repentaglio la sua vita: “Ma che cos’è la verità?” Ecco la cruda verità: non si sa dove sia!
Da una parte l’interminabile fila di disperati che a milioni seguono la strada impossibile che va a solcare il mare, ma finisce per alleggerire i gommoni insicuri con troppi annegati, rimpinguando oscenamente le tasche criminali; o che percorre la via di terra calcando fango e sassi fino allo stremo, per trovarsi di fronte a paratie di filo spinato che ricordano troppo i campi di internamento e i crimini di guerra che vorremmo aver dimenticato. Dall’altra parte i mediatori estenuati degli Stati coinvolti, ognuno dei quali rappresenta una soluzione diversa, ma si guarda bene dal dirlo, per non scoprire le carte che dovrebbero servire a disegnare i confini futuri, buoni per tutti, e a sconfiggere il terrorismo: ma quando? E qui si affaccia il problema purtroppo dimenticato dell’Ucraina; si scontrano con violenza le grandi correnti di fede islamica e rimangono sullo sfondo, ma solo per proteggerli, gli oleodotti che creano denaro, con il quale si producono armi che vengono distribuite in abbondanza a quelli che scalpitano per usarle, accorrendo perfino dalle nostre terre europee.
Siamo proprio obbligati a convincerci che ogni tanto, lungo la storia umana, ci vuole qualche guerra per svuotare gli arsenali di armi superate, e colmarli di quelle più sofisticate ed efficaci? È lavoro anche quello! Certo: la nostra attuale preoccupazione è dove collocare quei poveri esuli cui è rimasta solo un barlume di speranza sempre più debole. “Le persone vivono alla giornata -scrive un siriano forse ancora da Aleppo- la loro speranza è morta insieme alla loro città e molto spesso insieme ai loro cari. Le cose più semplici della vita sono diventate difficilissime. Passi il tuo tempo a guardarti attorno, come se fosse possibile sentire se sarai tu il prossimo a essere colpito da un attacco…Vedevamo gli aerei volare sopra di noi, a volte con la bandiera siriana, a volte russa, a volte non lo sappiamo nemmeno. Le persone non sanno chi sia l’obiettivo degli aerei e se saranno loro i prossimi a morire. Ma ora è arrivato il momento di andar via. Parto per un posto che non so neppure se esista. Addio Aleppo! Mia città natale, dove ho passato la mia infanzia, dove sono tutti i miei ricordi. Spero di rivederli un giorno”.
E un popolo muore! Ha custodito tesori millenari di cultura, pace e convivenza. Quando visitai la Siria nel 2007, mi era parso il popolo più nobile e pacifico del Medio Oriente. La dittatura, non molto evidente, garantiva le espressioni (almeno esteriori) della libertà: l’abito, dal chador alla minigonna, la sicurezza di muoversi giorno e notte, il cibo, i servizi pubblici. Ho ancora stampato negli occhi i monumenti che hanno scritto la storia e la cultura di un’indimenticabile parte dell’umanità e plasmato indelebilmente la personalità dei suoi abitanti: tutto distrutto. Che fare? Non lo so! Sembriamo e, forse, siamo realmente impotenti. Ma a fermarci non dev’essere solo la paura di un detonatore ormai vicino alla sua scadenza di tempo che farebbe avvampare il mondo intero: il grido di pace dev’essere più intenso, per dare voce a chi continua ad esserne privato e vaga per il mondo implorando un po’ della dignità perduta. Siamo pronti ad offrirne la possibilità?
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