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Covelli contestato da pm e difensori

Lunga testimonianza al processo Pesci dell’imprenditore calabrese trapiantato a Curtatone vittima di minacce e estorsioni

di Rossella Canadè
1 minuto di lettura

BRESCIA. Conferma ma non affonda. Non ricorda, oppure lima le punte più acuminate delle accuse. Vuoti di memoria o paura? Rocco Covelli, l’imprenditore calabrese trapiantato a Curtatone, secondo la Dda una delle vittime delle minacce e delle estorsioni della cosca di Nicolino Grande Aracri, è stato contestato più volte ieri nell’udienza del processo Pesci dove è stato sentito come testimone.

Un’udienza fiume, terminata alle sette di sera, che ha visto gli interventi puntuti sia dei Pm dell’antimafia bresciana Claudia Moregola e Paolo Savio, che dei difensori del boss Nicolino, di Rosario e Salvatore Grande Aracri, di Gaetano Belfiore, di Antonio Rocca, di Salvatore Muto e di Giuseppe Lo Prete. Dei 14 imputati per associazione mafiosa, su questi puntano il dito i risultati delle indagini per l’esproprio dei cantieri di via Aresi a Curtatone, e di Dosso del Corso, che Covelli sarebbe stato costretto a cedere con pesanti intimidazioni ai puledri della ‘ndrangheta.

Non hanno nemmeno bisogno di forzare la mano, in realtà, perché Covelli è un ex amico, che conosce bene metodi e linguaggio. Come l’incendio alla sua auto. Covelli, secondo quanto emerso dalle indagini, è sottomesso: consegna loro del denaro, «perché è necessario rendere conto a chi deve rendere conto giù» e per «tenere contento il geometra» cioé Nicolino, i cui richiami all'ordine mettono tutti sull'attenti.

In questi passaggi obbligati di beni, mattoni e banconote, emerge la figura di Paolo Signifredi, l'affarista parmigiano che si occupa degli aspetti formali degli affari Signifredi, già condannato a sei anni con rito abbreviato, diventa il liquidatore delle società di Covelli. Una vicenda che l’imprenditore ha confermato, senza però scendere nei dettagli dei collegamenti con la cosca. Signifredi per lui sarebbe stato soltanto un salvifico liquidatore, e Rocca, il referente dei cantieri mantovani, un semplice edile.

Sembra un’altra storia rispetto agli atti dell’indagine, da cui risulta che quando Rocca e il muratore Loprete vennero a conoscenza che Covelli era stato sentito dai carabinieri, lo aspettarono fuori dalla caserma perché temevano che avesse raccontato qualcosa di troppo. «Dammi la dichiarazione che hai fatto? Ah... non te l’hanno data? Con chi c... stai avendo a che fare tu?» E poi «Questo qua vuole essere preso a mazzate davvero. Che ora, se viene, lo sotterro a Covelli». Al termine sono stati sentiti anche i genitori dell’imprenditore su un passaggio di cambiali.

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