Quando in città c’erano 107 osterie: vino in quantità e acqua poca
Un viaggio nella città che non esiste più e che non troverete nemmeno nei libri di storia
Renzo Dall'AraMANTOVA. “L’ostarìa a gh’l’em vìda par trentòt ani, ma i’ha fa al palàs nov e alora basta”.
Dialetto mantovano e di città, come lingua madre, per Ilade Signorini Marini, da tradurre nella testimonianza che la sua famiglia ha avuto l’osteria per 38 anni, dopo però hanno costruito il palazzo nuovo (nel 1976), previa demolizione dello stabile esistente e cancellando, quindi, l’insegna delle “Tre rose”. Che era in corso Vittorio Emanuele II, angolo via Carducci, ma allora era più facile sentirla chiamare “da Basièt” (bàsia sta per mento) né si offendeva l’oste, Ettore Signorini, papà di Ilade.
A raccontare è lei e offre i suoi 91 anni di ricordi perché non vadano perduti, affidandoli a un elenco manoscritto, che disegna la sua Mantova delle osterie, completamente cancellate da quando, metà anni ’50 del ’900, nel solo territorio comunale se ne registravano 107. “Ma prima - precisa Ilade - gh’era anca le macìne”, spiegando al cronista vostro trattarsi di piccoli ambienti che servivano solo vino a bicchiere, picolìn e quint.
Seguendo il cammino della memoria, affascina qualche insegna che non c’è più, fra tutte “Al can cha ’l bàia a la luna”, il cane che abbaia alla luna: era in Pradella e da troppi anni, per collegarla al famoso dipinto, stesso titolo, di Joan Mirò, che è del 1926 e si trova in un museo a Filadelfia. Ruggiva, invece, il garibaldino “Leone di Caprera” in via Tubo (leggi Bertani). Seguita invece a ruggire oggi, anche se cucciolo, il “Leoncino rosso” di via Giustiziati. Facile associare, allora, animali più o meno tranquilli e osterie: “Lepre” in vicolo Frutta, “Pavone” e “Due muli” in via Pomponazzo, “Falco” in corso Garibaldi, “Cammello” in via Conciliazione, “Toro” dietro il Duomo e “Fosà di bo”, Fossato dei buoi, in via Accademia. Starnazza sempre, essendo “Oca”, come allora in via Trieste e gracidavano le catture dei “Ranari” di via Trieste. Nitrivano, in progressione, “Al Cavalìn in piàsa”, via Magnani (cioè Calvi) e i “Cavalin iin s’la Fera” in va Salnitro, ma sono due. Non servivano certo la frutta al “Pero” nello stesso vicolo, o alla “Noce” di via Orefici o alla Marasca, nata in vicolo Viole, poi Pastro ed emigrata poco distante, in Piasèta.
Altra escalation: dalle “Due more” in via Trieste alle “Quattro tette” in vicolo Nazione. Trattandosi di osteria, non vi poteva mancare “La Scudèla”, uso trippa o anche vino, in corso Garibaldi.
A dire il vero, “La bara” di via Fernelli, di fronte a San Simone, poteva inquietare, bastava però leggerla in dialetto per ridurla al timone del carro. In ogni caso, ecco “La farmacia dei sani” in via Trieste, non servivano ricette.
Al posto giusto “Al macèl”, corso Garibaldi 169 e non s’è mosso: il macello c’era, di fronte; mentre non c’è più “La luce elettrica”, via Corrado 58, dirimpettaia degli impianti della Bresciana. Come tutti gli elenchi, anche questo può essere già noioso, non abbastanza però da consentire svariate occasioni di ritorni nostalgici, chissà: ai tavoli di legno segnati dai cerchi dei bicchieri; alle uova sode, bartagnìn, pevrìn e vari altri stimolanti il bere: picolìn bianc alla mattina, quint negar dopo, cioè il decimo e il quinto di litro. Pochissimo richiesta l’acqua.
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