Soldi accreditati per sbaglio, causa (persa) per 135mila euro
Un sogno: 135mila euro accreditati sul conto postale di papà. Un sogno però durato troppo poco
MANTOVA. Un sogno: 135mila euro accreditati sul conto postale di papà. Un sogno però durato troppo poco: accortesi dell’errore, le Poste Italiane hanno cancellato l’operazione spostando la consistente somma di denaro ai legittimi proprietari.
Di fronte ad un fatto simile sarebbero comprensibili smarrimento e delusione in chiunque. Ma a due fratelli mantovani, cui realmente tutto questo è successo, hanno deciso di tentare le vie legali per recuperare quello che, a loro detta, spettava alla famiglia. Facendo causa alle Poste Italiane spa, chiedendone la condanna e soprattutto chiedendo il rimborso dei 135mila euro. La vicenda, iniziata una decina di anni fa, è andata per le lunghe. E solo adesso, dopo tre gradi di giudizio, ha trovato la parola fine con la sentenza pronunciata nei giorni scorsi dalla Corte di Cassazione.
Il risultato? Niente da fare: respinto il ricorso dei due fratelli, Massimo e Curzio Affini (difesi dagli avvocati Arturo Antonucci e Roberto Vassalle), che avevano chiesto alla Suprema corte di ribaltare quanto stabilito nel 2006 dal giudice di Mantova e nel 2010 dalla Corte d’Appello di Brescia. Non solo: la Cassazione ha condannato i ricorrenti al rimborso delle spese in favore della resistente, cioé Poste Italiane, per 7.400 euro, oltre alle spese generali e accessori.
Quei 135mila euro più accessori, è possibile leggere nella sentenza, erano per i due fratelli, «pari al valore di un buono postale ordinario che, originariamente immesso sul deposito titoli intestato al defunto loro genitore, Bruno Affini, risultava illegittimamente prelevato dopo la sua morte».
Secondo le Poste, invece, «l’accredito del buono sul dossier titoli di Bruno Affini era stato frutto di un errore sui numeri di conto, in quanto il titolo era stato in realtà acquistato da altri soggetti... in favore dei quali si era, dunque, provveduto al riaccredito».
La sentenza di primo grado, come quella d’Appello, hanno insistito entrambe su due punti: la mancata prova della titolarità del buono in capo al de cuius, e il fatto che «i documenti contabili prodotti dalle Poste attestavano inequivocabilmente che l’iniziale accredito del titolo era stato frutto di un errore».
Non sono state ritenute valide prove le due comunicazioni contabili che davano notizia dei soldi agli Affini. Ora la Cassazione chiude il caso, respingendo il ricorso contro il giudizio d’appello.
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