Così smontarono Porta Pradella, su ogni blocco un numero nero
Porta Pradella restò in piedi fino al 1940: il ricordo di quegli anni

MANTOVA. Pradella si fa bella, ma “par belìr bisogna sofrìr” ammonivano i vecchi, come infatti sta accadendo tra i pro, i contro e i “mesa via”. Vedremo dopo se i 600 metri della strada più strada vivrà il suo rinascimento come da progetto. Intanto, rimane significativo il ritorno di popolarità dell’antichissimo nome, così com’è, per favore non appiccicateci corso o via, per generazioni “’ndèma in Pradèla”, “’a s’catèma in Pradela” è bastato. Scusate, è che ho avuto una mia Pradèla, ristretta fra va Tito Speri e via Carducci, con evasioni fino a Ognissanti, territorio oratoriale del don Giosuè Rosa. Quando uscivo dal mio vicolo (Tezze) vedevo in fondo la Porta Pradella monumentale ed era divertente passare sotto un arco per andare ai giardini o alla rotonda, a veder passare i treni.
Dopo, mi spiaceva vedere che smontavano la porta e su ciascun blocco scrivevano un numero, con la vernice nera. Avevo 10 anni e quando non c’erano i muratori, saltavamo da un blocco all’altro. La mia Pradella non era uno spazio generico, ma ben definito e funzionale: sull’angolo di via Tito Speri la sali e tabacchi delle Manfredi, donne; quindi l’Alceo Stori salumeria; il Cleante Tenedinii merceria; il Romani fruttivendolo, infine al bechèr, la macelleria del Giovanni Carra. Sull’angolo con vicolo Tezze l’idraulico Mazzocchi Adrasto e, a seguire, la drogheria Badalotti Ernesto.
Finale in gloria, soprattutto per il nonno, le Tre rose, pregiata osteria che ormai era diventata “da Basièt” con esplicita allusione alla bàsia, il mento dell’oste. La figlia Ilade che era (ed è) amica mia, potrà rimediare a possibili scherzi della mia memoria logistica, fino a poco più in là, alla Rangoni concessionaria Fiat, andavo a vedere le automobili in vetrina. Quella Pradella poteva diventare palcoscenico di spettacolo, quando passava la banda dell’80° Fanteria, diretta dal maresciallo Pipitone, con davanti il mazziere, ammirato per i voli che faceva fare alla mazza. Sempre per via oratorio ero amico del figlio del maresciallo musicista, che mi avvisava prima della sfilata. Dopo, ne dovevo vedere un’altra, quando partivano per la Russia c’era anche lo zio Alcide, ma questa è ben altra storia.
Non è che ci fosse un confine, arrivavo fino al Michele Bianchi (oggi MaMu), con ampia sala per spettacoli d’arte varia. L’età non fa dimenticare gli artisti alla ribalta, assolutamente casalinghi, fossero Turiddu Carfì, Bianca Savazzi, Renata Camin o Stelio Cestari, Franco Rabbi e, soprattutto, Marco Bacchi, vicino di casa in vicolo Tezze, poi giornalista al Resto del Carlino. Bella voce di bass - baritono, Marco ci dava un’interpretazione drammatica della “Sagra di Giarabub”, canzone istantaneamente musicata da Mario Ruccione, testo di Simeone-De Torres, sull’onda emotiva dell’eroica resistenza italiana nell’oasi cirenaica di Giarabub, tra il dicembre 1940 e il marzo del ’41... Non credo di essere il solo a ricordare la canzone: “Colonnello non voglio pane/ voglio il piombo del mio moschetto” e, a seguire, “Non si cede neppure un metro/ fin che morte non passerà”. Colpo di fucile e Marco crollava, sempre, anche quando il meccanismo dietro le quinte s’inceppava.
Renzo Dall'Ara
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