Quando la bici fu scomunicata. Il vescovo: un mezzo demoniaco
Il “cavallo d’acciaio”, al suo primo apparire, bersagliato dai divieti comunali anche a Mantova, dove era “vietato assolutamente percorrere sopra velocipedi e velocimani le strade e le piazze della città"
Renzo Dall'Ara
MANTOVA. Bicicletta, amore mio, ancor più adesso che non posso più pedalare, ma questa è un’altra storia, privata e irrilevante. Al contrario, la bici è diventata sempre più fashion, glamour e non meravigliatevi se ricorro ai linguaggio della moda e alta: ha dimostrato un concreto interesse per i gioiellini in magnesio e fibra di carbonio firmati Pinarello un fondo di private equity nel quale potete trovare LVNH, cioè Bernard Arnault, cioè Louis Vitton.
Per parte loro, Colnago e De Rosa continuano ad arricchire la vetrina delle tentazioni, così come la Bianchi che fu di Coppi e Pantani. Come italiani siamo sempre bravi.
Non era andata sempre così per il “cavallo d’acciaio”, al suo primo apparire, bersagliato dai divieti comunali anche a Mantova, dove era “vietato assolutamente percorrere sopra velocipedi e velocimani le strade e le piazze della città. La pista interna carreggiabile delle piazze Virgiliana e Lega Lombarda potrà essere percorsa dal mattino sino alle ore di notte, meno i giorni festivi, di fiera, di mercato de’ Bozzoli od allorquando per esposizione di baracche o per altri divertimenti pubblici, avvi concorso straordinario di persone. Per accedere a queste piazze o per uscire dalle porte della città i velocipedisti dovranno sempre condurre a mano i loro veicoli sul piano stradale, fuori dai marciapiedi”. Così scriveva la Gazzetta di Mantova del 5 maggio 1892, sindaco all’epoca era Cesare Menghini.
Non era una scomunica, ma quasi quella rivolta allo “strumento demoniaco” dall’arcivescovo di Torino, mentre monsignor Giuseppe Sarto, vescovo della Diocesi mantovana dal 1884 al 1893 e futuro Papa Pio X, aveva già ritenuto “necessario di proibirne l’uso dei velocipedi a tutti i sacerdoti della mia Diocesi”.
Più severo monsignor Paolo Carlo Origo, vescovo di Mantova, il 23 agosto 1915 estendeva la condanna, dalla bicicletta alla motocicletta e simili: “Deploriamo vivamente che taluni nostri sacerdoti facciano uso della bicicletta, contro il divieto assoluto del nostro Concilio Provinciale VII. Noi non abbiamo mai dato né potevamo dare licenza ad alcuno di violare il disposto di sì alta autorità”.
Lo stesso presule riconosceva, però, che non mancavano fra gli stessi sacerdoti “patroni eloquenti del velocipede e della bicicletta dichiarandola opportunissima”. Pedone, invece, voleva restare don Doride Bertoldi, in poesia Anfibio Rana:
“On prét in bicicléta? Gnent afàt/ volér o non volér l’è n’indecénsa/ on prét sentà là insìma al par on mat/ al pèrd la dignità, la convenienza/ ...sl’è questo ch ‘lè l’ volér di superiòr/ l’è quest al vèc proerbi di mantvàn/ bisogna törla dölsa, i c’manda lör/ e a pé andaréma incòra par sent’an..”. Ma al parroco di Villagrossa non piaceva nemmeno il treno “Coi cosìn ad tersa clas/ inbotì dal marangòn”, Sedili di legno e accontentarsi.
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