Festivaletteratura 2017, Grasso e Cosa Nostra: «Io, un sopravvissuto»
Dal maxiprocesso a Capaci: il presidente del Senato racconta Falcone: «Nella strage interessi estranei alla mafia? Sì, ma solo Riina può dircelo». Dopo l’evento in piazza Castello il procuratore si concede all’abbraccio dei volontari pranzando in mensa
di Igor Cipollina
MANTOVA. Venticinque anni fa furono stragi di mafia mafiosa o concorsero altri interessi e responsabilità fuori dal perimetro di Cosa Nostra? «I fatti dicono che un’attività esterna ci fu, ma soltanto Riina potrebbe darci qualche notizia in più, lui o i suoi corrispondenti dall’altro lato». Autorevole anche quand’è confidenziale, il presidente del Senato Pietro Grasso annoda la sua memoria personale alla storia collettiva, raccontando insieme al giornalista Giovanni Bianconi di una Sicilia mutilata che si fece specchio di un’Italia distratta quando non complice.
Il presidente Grasso alla mensa di Festivaletteratura
Un’Italia persa nell’altro lato. L’innesco è proprio il venticinquesimo anniversario delle stragi di Capaci e via D’Amelio, che Grasso ha voluto celebrare in chiave antiretorica, strappando Giovanni Falcone e Paolo Borsellino alla loro fissità di eroi, troppo distanti ed eccezionali per poterne replicare i “poteri”. «Erano persone normali – scandisce Grasso – certamente dei fuoriclasse nel loro campo, ma io vorrei che fossero visti dai cittadini come un esempio da imitare».
Di Falcone e Borsellino, ma non solo, il presidente del Senato ha scritto nel libro “Storie di sangue, amici e fantasmi. Ricordi di mafia” (Feltrinelli), un diario dedicato espressamente ai ragazzi nati dopo il 1992, che spesso della storia più recente conoscono soltanto alcuni capitoli. Perché «due magistrati uccisi dalla mafia» è una risposta zoppa alla domanda «chi furono Falcone e Borsellino?». Perché i ragazzi sono il nostro futuro e l’educazione alla legalità è la chiave di un rovesciamento culturale che in alcuni paesi della Sicilia è già cominciato, grazie all’impegno di alcuni insegnanti, per i quali Grasso chiede (e ottiene) un applauso. E all’abbraccio dei ragazzi, la meglio gioventù di Festivaletteratura, il presidente del Senato si concederà dopo l’evento in piazza Castello, pranzando alla mensa dei volontari.
Giudice a latere nel maxiprocesso a Cosa Nostra del 1985 e consigliere di Falcone all’ufficio affari penali del ministero di Grazia e Giustizia nel 1991, Grasso può raccontare in prima persona un largo brano di storia recente, attingendo al suo bagaglio di ricordi. Bagaglio capiente, che comprende anche la memoria del 6 gennaio 1980, la domenica in cui a Palermo la mafia uccise l’allora presidente della Regione, Piersanti Mattarella, e il magistrato di turno Pietro Grasso dovette correre in via della Libertà. Omicidio eccellente che, insieme all’assassinio del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa e a quello del magistrato Rocco Chinnici, innescò la reazione dello Stato, prima con l’introduzione del reato di associazione a delinquere di tipo mafioso (articolo 416 bis), quindi con il maxiprocesso, grazie al pentimento di Tommaso Buscetta e alla sua collaborazione con Falcone.
Eppure, segnala Bianconi, dopo quasi 38 anni dell’omicidio di Mattarella, fratello dell’attuale presidente della Repubblica, non si conoscono ancora gli esecutori. Perché? «Perché quel delitto sembrava trascendere i fini propri di Cosa Nostra, anche se la politica con le carte in regola di Mattarella dava fastidio – risponde Grasso – probabilmente i killer non erano noti nemmeno all’interno delle famiglie. Ad avvalorare l’intuizione delle motivazioni altre ci sono anche i depistaggi, a partire da quello di Ciancimino prese il questore sotto braccio e gli disse che l’assassinio era un brigatista rosso del nord».
Resta la soddisfazione per le condanne del maxiprocesso, impressionante nei numeri – 476 imputati, 483 capi d’imputazione, tra cui 120 omicidi, 400mila documenti – e nell’ambizione di giudicare gli ultimi dieci anni di attività di Cosa Nostra e i suoi rapporti con la politica. Il tutto accelerato dalla necessità di arrivare a sentenza prima che scadessero i termini della custodia cautelare. Impressionante nei dettagli che raccontano del clima di allora: i giudici “in panchina”, pronti nel caso in cui la mafia avesse ucciso uno dei titolari, i 18 giudici popolari contro i 6 abituali, per non trovarsi impreparati in caso di ripensamenti per intimidazione. E ancora prima la “reclusione” di Falcone e Borsellino all’Asinara perché riuscissero a scrivere l’ordinanza di rinvio a giudizio, mentre per le strade di Palermo la mafia stava uccidendo uno dopo l’altro i poliziotti impegnati a catturare i latitanti.
E poi c’era l’aula bunker a prova di missile, «la bara di cemento» costruita nel tempo record di sei mesi: fu proprio Grasso, in previsione di una lunghissima camera di consiglio, a ottenere che una delle finestre della porzione riservata alla corte e ai giudici popolari diventasse una porticina su un piccolo cortile. «Fu la nostra salvezza psicologica, uscivamo a vedere un pezzettino di quel mondo da cui eravamo isolati». Ridimensionate in Appello, quando la mafia cominciò a uccidere i giudici giudicanti, e confermate in Cassazione, le condanne del maxiprocesso avviarono la stagione dei veleni, la delegittimazione di Falcone e lo sgretolamento del pool antimafia. Fino alle stragi del 1992. «Ho il senso di colpa del sopravvissuto – confessa Grasso, che della sentenza fu l’estensore – se il maxiprocesso fosse finito male, Falcone e Borsellino sarebbero ancora vivi? A volte me lo domando, ma poi mi rispondo che sicuramente Falcone e Borsellino avrebbero raccolto gli elementi per un altro processo, non si sarebbero mai fermati».
E a proposito degli interessi altri in concorso con quelli di Cosa Nostra, ricorda Grasso del commando mafioso inviato a Roma proprio per uccidere Falcone (ne faceva parte anche Matteo Messina Denaro) e poi richiamato indietro, in Sicilia, dove Falcone sarebbe saltato in aria insieme alla moglie Francesca Morvillo, a tre agenti della scorta e a un pezzo di autostrada. Cinquecento chili di esplosivo per un attentato eclatante, che ha fatto il giro del mondo. «Perché? – si domanda ancora Grasso – Cos’ha fatto cambiare idea a Riina?».
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