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'Ndrangheta, stangata al processo Pesci: condanne per 120 anni

La pena massima per il boss della cosca di 'ndrangheta Nicolino Grande Aracri che dovrà scontare 28 anni in carcere, 26 anni e 10 mesi per il suo sodale al Nord Antonio Rocca. I pm: "A Mantova torna il tempo della speranza"

Rossella Canadè
2 minuti di lettura
La lettura della sentenza (foto Saccani) 

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BRESCIA. Sono le 10.47 del 21 settembre quando i tre giudici del tribunale di Mantova rientrano dopo due giorni e mezzo di camera di consiglio nell’aula strapiena di palazzo Zanardelli. Con soli diciassette minuti di ritardo sull’orario annunciato, il presidente Ivano Brigantini legge la sentenza per i sedici imputati del processo Pesci, accusati di aver messo a segno estorsioni, minacce, detenuto armi, corrotto il mercato edilizio ed economico mantovano sotto le direttive del boss della ’ndrangheta di Nicolino Grande Aracri. Il suo nome è il terzo dell’elenco, ma fa già storia: 28 anni di carcere.

I pubblici ministeri della Dda bresciana, Claudia Moregola e Paolo Savio sono riusciti a portare “Manuzza”, o “Mano di gomma”, in cella al 41 bis a Opera, prima alla sbarra e poi alla condanna per associazione mafiosa per la prima volta al Nord Italia. La sentenza di condanna per lui e per altri nove imputati è la prima in assoluto emessa nel distretto di Brescia per il 416 bis, l’associazione mafiosa. 

 
Una sentenza che segna un punto di non ritorno sulla consapevolezza della presenza della ’ndrangheta a Mantova. Davanti ai difensori (assenti tutti i nomi illustri dei fori calabresi), ai carabinieri del nucleo investigativo di Mantova, ai volontari di Libera e a una classe di un liceo bresciano, Brigantini sciorina la sentenza. Oltre a quella di Nicolino, altre due condanne pesantissime: Antonio Rocca, il muratore trapiantato a Pietole, in cella a Novara, puledro del boss nel Mantovano, dovrà scontare 26 anni e 10 mesi di carcere e Giuseppe Loprete, il fabbro, “uomo di pace e verità”, 19 anni. Dieci anni per Alfonso Bonaccio, “Fruntz”, addetto a reinvestire gli incassi della cosca. Il muratore Salvatore Muto, compare di Rocca, dovrà scontare 18 anni, due in meno della richiesta dell’accusa.
 
Dimezzata la pena per i fratelli Ennio e Danilo Silipo, stabilita in quattro anni. Ridotta di 10 anni rispetto alla richiesta dei pm la pena per la moglie di Rocca, Deanna Bignardi, che dovrà scontare quattro anni. I giudici non l’hanno ritenuta un membro dell’associazione mafiosa. Suo figlio, Salvatore Rocca, coinvolto nelle vicende di armi del padre, dovrà scontare un anno e nove mesi, e potrà usufruire della condizionale. 
 

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Sei le assoluzioni: Gaetano Belfiore, genero del boss, per i pm informatore di Nicolino Grande Aracri per gli affari al Nord, Antonio Floro Vito, per cui l’accusa aveva chiesto sei anni, e assoluzione pure per Rosario e Salvatore Grande Aracri, fratello e nipote del boss. Per loro i pubblici ministeri avevano chiesto pene di 15 a 13 anni. Assolto anche l’imprenditore del ferro Moreno Nicolis.
 
 
Per il veronese, intercettato tra l’altro durante un viaggio in Calabria per incontrare il boss Nicolino, l’accusa aveva sostenuto un coinvolgimento in un episodio di estorsione nei confronti dell’imprenditore Giacomo Marchio. E proprio Marchio è stata la sorpresa del processo: considerato nelle fasi iniziali dell’indagine una vittima della cosca, su di lui nei mesi si sono addensati sospetti di comportamenti omertosi per coprire i membri della cosca. I giudici hanno addirittura alzato la pena chiesta dai pm, condannandolo a quattro anni e mezzo di carcere. 
 

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Sono stati riconosciuti anche i danni subiti dalle uniche due parti civili che si sono costituite: Matteo Franzoni e l’associazione Libera contro le mafie. All’imprenditore di Curtatone, ex socio di Antonio Muto, che ha firmato 14 denunce contro la cosca, andranno in via provvisionale 70mila euro, mentre all’associazione fondata da don Luigi Ciotti 200mila euro. Che Libera destinerà a progetti per l’antimafia.

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