Un limbo lungo due anni. Poi status negato all’80%
In 36 ore dai barconi ai centri di prima accoglienza a Canneto sull’Oglio e Suzzara. Il paradosso: corsi di lingua e prove d’integrazione ma il permesso sarà per pochi

MANTOVA. Quanto dura il viaggio dai paesi dell’Africa centrale all’imbarco in Libia? Settimane o più spesso mesi. Bastano invece 36 ore perché i migranti – in delicate condizioni igienico-sanitarie, fisiche e psicologiche – si ritrovino a passare dal barcone al largo di Lampedusa a Suzzara o Canneto sull’Oglio, sedi dei centri di prima accoglienza. Catapultati dall’Africa più povera ad una destinazione nemmeno immaginata in un batter d’occhio, sulle spalle il peso di odissee che costano la salute quando non la vita. Trentasei rapidissime ore prima del nuovo mondo.
Quando la spartizione tra province vuole che l’ultimo barcone arrivato sulle coste italiane tocchi a Mantova, da Roma parte una circolare verso la prefettura di Milano prima ancora dello sbarco, cioè già quando, a bordo della nave, i richiedenti asilo vengono sottoposti ai primi test sanitari. A quel punto viene avvisata la prefettura di via Principe Amedeo, che fa partire l’autobus preso a noleggio che deve occuparsi del trasporto dall’hub di Bresso a Mantova. Qui le prime destinazioni sono due: gli hotel Margot di Canneto (gestito da Alce Nero) e New Garden di Suzzara (affidato a Olinda), che fanno da strutture di prima accoglienza. Fino a questo momento chi dovrà accoglierli non ha idee di chi arriverà: uomini, donne, bambini, giovani, meno giovani.
Ecco allora che si parte da un ulteriore screening sanitario, parallelo alle procedure di identificazione in questura e alla formalizzazione della richiesta di asilo. Di solito la permanenza nei due hotel dura solo qualche giorno, fino allo smistamento in uno dei circa cento centri di accoglienza (appartamenti, ex hotel o strutture gestite da coop, associazioni e privati) dove poi rimarranno in media due anni.
Un periodo di tempo che gli operatori - e lo stesso Consiglio d’Europa che ha bacchettato l’Italia - giudicano troppo lungo. In sostanza, i migranti trascorrono due anni in mano alle cooperative, impegnati in qualche progetto di alfabetizzazione e poco più. È la lunga fase nella quale le coop gestiscono i 35 euro a testa per ciascun ospite.
Perché il periodo si protrae così tanto? Colpa della lentezza con cui la commissione di Brescia - al pari delle altre italiane - arriva a sancire se il migrante ha diritto all’asilo politico o ad altre forme di protezione. Non solo: dopo un primo parere negativo, il migrante può andare in appello. Se si considera che circa otto casi su dieci si risolvono senza il riconoscimento della protezione internazionale, il paradosso è servito: i migranti restano per un paio d’anni nell’alveo del piano di accoglienza con l’altissima probabilità che questo non sfoci in un esito favorevole.
Uno scenario poco apprezzabile per almeno due ragioni: i costi elevatissimi per lo Stato e, dal lato del migrante, un lunghissimo limbo senza conoscere il proprio destino o, peggio, un percorso che assomiglia a un vicolo cieco. Perché se da una parte è vero che più di un richiedente asilo nel frattempo - sposandosi o trovando lavoro - riesce ad avviare un percorso autonomo, dall’altra nella maggior parte dei casi finirà per ritrovarsi privo di diritti al termine di due anni passati in un appartamento, con nulla più che qualche corso di italiano nel curriculum.
La vita nei centri di accoglienza - siano appartamenti per poche persone o strutture per gruppi più numerosi - è regolata da un codice normativo interno. In mezzo a tanto tempo fatalmente libero, c’è l’obbligo di partecipare alle lezioni di italiano (un’impresa quando l’alunno non ha mai visto una scuola in vita sua ed è analfabeta) e in alcuni casi si va a fare la spesa o qualche altra attività con il personale della coop per provare a costruire un’autonomia. Per il resto, massima libertà: anche quella di andarsene. Dove? Da amici in altre città o altrove a cercar miglior fortuna. Ma, in questo caso, rinunciando a vitto, alloggio e servizi garantiti dai progetti di accoglienza.
In questi casi, tocca alla coop avvisare la prefettura, che interrompe il pagamento. Non è affatto una circostanza rara: tra gli addii spontanei e chi vede definitivamente negato lo status di profugo, il turnover è continuo. (ga.des)
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