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L’epidemia nella fase 2 a Mantova: «Ora i nuovi contagiati sono più giovani»

L’analisi dell’Ats Val Padana dal 23 febbraio al 17 maggio: rischio di ripresa. All’inizio si ammalavano di più gli uomini, poi la proporzione si è rovesciata

Igor Cipollina
4 minuti di lettura

MANTOVA. Una fotografia della fase 1, e del primo, blando frammento della 2, per mettere a fuoco chi e come si è ammalato nelle province di Mantova e Cremona, unite nel perimetro dell’Ats Val Padana ma divise rispetto all’andamento dell’epidemia. Una foto che è anche una mappa per orientarsi in questa nuova stagione di riaperture e ritorno alla socialità, pure se compressa rispetto alla dimensione pre-virus. L’imperativo è scongiurare una nuova impennata di casi, l’opportunità, adesso che l’epidemia ha frenato, quella di misurare le occasioni di contagio in luoghi e situazioni quotidiani. Dietro l’obiettivo c’è l’Osservatorio Epidemiologico dell’Ats Val Padana, diretto da Paolo Ricci.

La prima evidenza? Dal 4 maggio, data di allentamento delle misure anti-contagio, al 17 maggio, ultima domenica della fase 2 a maglie strette, l’età media dei nuovi contagiati è scesa. A conferma che la rimessa in marcia delle persone socialmente più attive si traduce nel rischio di una ripresa dell’epidemia. Occhio, quindi. Soprattutto adesso che la fase 2 ha accelerato.

Assistiti e residenti

La distinzione spiega il disallineamento tra i dati di Regione Lombardia e quelli della Prefettura, che attinge dall’Ats Val Padana. Perché per Mantova alla data del 17 maggio la Regione comunicava 3.291 contagiati (dal 23 febbraio) e la Prefettura 3.186? Perché il calcolo parte dagli assistiti iscritti all’anagrafe sanitaria, ma va poi “pulito”, asciugato alla sola popolazione residente, a cui gli indicatori devono riferirsi per descrivere la pandemia rispetto al territorio. E questo spiega anche la sfasatura tra i dati della Prefettura e quelli che l’Ats indica nella sua analisi (3.080): la fonte è la stessa ma il lavoro di pulizia richiede tempo, è più lento dell’aggiornamento quotidiano. Così per Mantova e pure per Cremona.

Così vicine così lontane

L’analisi dell’Ats mostra come «il fenomeno epidemico in provincia di Cremona abbia anticipato di circa dieci giorni quello della provincia di Mantova, procedendo con una maggiore velocità fino a raggiungere un numero di casi totali pressoché doppio rispetto a Mantova». Espresso in numeri assoluti, o, meglio, in termini di incidenza cumulativa, «significa un totale di 6.052 casi, pari a 1.686 x 100mila residenti, a Cremona, rispetto a un totale di 3.080 casi, pari a 747 x 100mila residenti a Mantova». Speculare è il tasso di mortalità: «In provincia di Cremona si sono registrati 1.083 decessi, pari a 302 x 100mila residenti, mentre in provincia di Mantova ci sono 646 decessi, pari a 157 x 100mila abitanti».

Come si spiega una differenza così marcata? Con «la maggiore vicinanza geografica di Cremona al primo focolaio di Codogno» e con «la modesta interconnessione tra le due province». Sia a Mantova sia a Cremona la fascia di età più colpita è quella degli over 70 – anche se con percentuali differenti, 52 contro 43 – e «la stabilizzazione dell’incidenza è stata raggiunta dopo circa due mesi, a seguito della chiusura totale imposta per decreto». Morale, il lockdown ha funzionato.

Mortalità e letalità

Se a Cremona ci sono stati più contagi, in proporzione tra i malati mantovani di Covid si sono registrati più morti. Reso in termini rigorosi, il dato emerge dal rapporto tra l’incidenza cumulativa («il totale dei casi insorti») con la letalità («i deceduti sul totale dei malati, non della popolazione residente»). A differenza dell’incidenza – segnala l’Ats – «la letalità è pressoché doppia nei maschi nelle principali fasce d’età». E se è vero che la letalità è molto sovrastimata, «perché i deceduti non sono rapportati all’intera popolazione dei malati, come vorrebbe l’indicatore, ma soltanto a quelli ospedalizzati» o sottoposti al test, è anche vero che alcuni morti per Covid potrebbero essere sfuggiti al tampone. Ad accertarlo saranno gli studi successivi.

Questione di genere

«Le curve epidemiche fanno osservare che, in una prima fase, l’incidenza maggiore è nei maschi, molto più evidente a Cremona rispetto a Mantova – annota l’Ats – ma si ribalta dopo circa un mese in entrambi i territori a sfavore del genere femminile, che si mantiene complessivamente prevalente». Questo rovesciamento di genere racconta che, inizialmente, il contagio ha avuto caratteristiche di socialità, dimensione che, al netto degli stereotipi, coinvolge di più i maschi, e, successivamente, di prossimità, nel perimetro della famiglia. Detto brutalmente, l’uomo ha portato il virus a casa dal lavoro, dal calcetto, dal bar o dal circolo. Soprattutto da questi ultimi due luoghi per le generazioni anziane.

A questa dinamica si è aggiunta «la componente lavorativa del comparto socio-sanitario successivamente coinvolta, in cui, sempre per un ruolo sociale collegato al concetto di cura, prevale il genere femminile». Così come il genere femminile è dominante tra gli utenti delle case di riposo – il rapporto è di 4 a 1 – «per motivi riconducibili però all’esaurimento fisiologico del medesimo ruolo». Ovvero, quando non sono più autosufficienti, le donne finiscono in una struttura assistenziale, mentre è più probabile che un uomo sia accudito a casa fino all’ultimo. E questo ha prodotto lo scambio di genere (ma la letalità resta nettamente a sfavore dei maschi).

Occhio alle riaperture

Sfilacciati da due mesi di isolamento e mobilità mutilata, abbiamo accolto la fase 2 come una liberazione, ma, ad avvertirci del pericolo, interviene anche l’Ats: «Interessante il sorpasso della fascia di età socialmente più attiva su quella di età più avanzata a seguito della parziale riapertura delle attività (in tutta la Lombardia, ndr), spia del rischio di ripresa epidemica e, quindi, di rinforzo delle raccomandazioni cautelative». La minaccia non è ancora alle spalle, guai ad abbassare la guardia, accorciare le distanze e farsi prendere dalla febbre di una normalità che non può essere la consuetudine di una volta.

Le linee d’azione

E ora come procede l’Ats Val Padana diretta da Salvatore Mannino? Attraverso il lavoro dell’Osservatorio epidemiologico, in collaborazione con il Sistema informativo della prevenzione, «Ats sta procedendo a costruire una reportistica aggiornata per ogni “settimana epidemiologica”, allo scopo di monitorare il fenomeno nel tempo in funzione delle misure di prevenzione adottate e verificarne l’efficacia, nonché rimodularle progressivamente». Spetta invece ai Sistemi informativi e Controllo direzionale il compito «di mappare ad horas tutti i nuovi casi positivi per consentirne il più rapido isolamento possibile tramite i servizi del Dipartimento di prevenzione».

Una seconda linea d’azione è quella delle indagini sierologiche, «in primis quella nella popolazione per ricercare gli anticorpi anti-Covid19 e stimare così la proporzione di soggetti che hanno sviluppato l’immunità per misurare la distanza che ci separa dall’“effetto gregge”». Con un’avvertenza: «La durata dell’immunità non è nota, come neppure quella del tampone negativo, quindi nessuna “patente” di assenza di pericolo per sé e per gli altri è all’orizzonte». La parziale remissione dell’epidemia consente inoltre, per i nuovi casi, «di raccogliere ed informatizzare tutte quelle variabili che ci consentono di comprendere meglio i meccanismi del contagio e, quindi, di bloccarli nel breve periodo». Oltre che sotto il profilo clinico e per la loro collocazione, i nuovi casi vanno caratterizzati «per il loro contesto ambientale di potenziale esposizione al virus (domicilio, luogo di lavoro, professione)». L’obiettivo è quello di adeguare al meglio le misure di prevenzione in atto.

Avanti anche con studi ad hoc per indagare, ad esempio, la relazione tra inquinamento atmosferico e infezione da Covid, la compatibilità tra lavoro in sicurezza e rischio infettivo, l’analisi comparativa del fenomeno dalla dimensione locale a quella internazionale. Mantova-resto del mondo. 

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