La minaccia della cosca al commerciante: «Se non paghi ti facciamo a fette»
Il viadanese ai domiciliari nell’inchiesta “Operazione scaligera” sulla 'ndrangheta è accusato di tentativi di estorsioni. Andava dalla ex moglie del negoziante per dirle che avrebbe ammazzato il marito. Il gip: "Assoluta professionalità nell'azione criminale"
Rossella CanadèVIADANA. «Se non paghi ti facciamo a fette», e «andiamo a cercare la tua famiglia». Parole di Arcangelo Ledà, Luca per gli amici, o forse per confondere le acque. Lui e il suo compare cercano di convincere così un commerciante di prodotti alimentari di Prato a sottostare alle loro richieste.
Il 46enne, crotonese di nascita ma residente da anni a Viadana in via Villa Santa Maria, è uno degli arrestati nell’operazione scaligera, con cui la Dda di Venezia ha smantellato un nucleo locale di ‘ndrangheta riconducibile alla famiglia Giardino legata alla potente cosca degli Arena-Nicoscia di Isola Capo Rizzuto. Un clan che operava soprattutto nel Veronese con agganci economici in Lombardia e in Emilia, grazie ai legami con gli altri sodali della cosca isolina. A cui secondo gli investigatori, Iedà sarebbe legato a doppio filo.
Arcangelo è fratello di Raffaele, uno dei tre espulsi dal circolo del Pd di Viadana nel 2014 per i suoi trascorsi non proprio cristallini: secondo la Dda era uno dei personaggi presenti alla famosa cena del 2006 con Nicola Lentini, allora astro nascente della cosca di Isola di Capo Rizzuto. La cena in cui Lentini telefona al compare Luigi Morelli, che sta in Calabria, pronunciando l’inquietante proclama “Viadana è il nostro”.
Fratelli di sangue e di testa, Raffaele e Arcangelo, quest’ultimo accusato dagli investigatori veneti di tentativi di estorsione con metodi dal sapore mafioso. Lui e un suo compagno di merende, Antonio Lo Prete, per ottenere denaro sonante dal commerciante toscano, non vanno per il sottile, come emerge dalle carte dell’inchiesta. Minacce di morte a lui, continue visite non certo di cortesia nella sede della sua attività, e perfino incursioni nella palestra della ex moglie, dicendole senza mezzi termini che, se avessero trovato il suo ex marito, lo avrebbero ammazzato. Parole forti che evocano la loro appartenenza alla cosca capeggiata dal boss Antonio Giardino, alias «Totareddu» o «il grande». L’uomo che dal letto dell’ospedale di Negrar, dov’era stato ricoverato, convocava i fedelissimi via Whatsapp per dirigere le azioni criminali.
Il gip Barbara Lancieri segnala «l’assoluta professionalità con cui pianificavano l’azione criminale, i sopralluoghi da effettuare e le persone da coinvolgere nella vicenda delittuosa, gente “con poco cervello” ma “braccia pesanti”». Caratteristiche che Arcangelo Iedà aveva già esibito a Viadana negli anni scorsi: nel 1999 era stato arrestato dai carabinieri per estorsione nei confronti di un barista. Il giovane, dopo un’inspiegabile vincita di gettoni consumazione alla slot machine del locale, pretendeva dal titolare il pagamento di sei milioni. Ma i carabinieri avevano organizzato una trappola: e quando Iedà si era presentato a ritirare i soldi erano scattate le manette. Nel 2006 era poi stato arrestato per danneggiamento e resistenza a pubblico ufficiale dopo una violenta lite con la moglie, che per lo spavento era perfino svenuta.
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