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L'epidemiologo: «Ora più attrezzati contro il Covid, ma non è finita»

Intervista al responsabile dell’Osservatorio Ats di Mantova e Cremona: «Mascherine all’aperto? Ragionevole limitarle al chiuso»

Igor Cipollina
4 minuti di lettura

MANTOVA. La situazione incoraggia a un prudente ottimismo, il virus è ancora tra noi ma la fase 3 non sembra aver accelerato i contagi e la curva epidemiologica se ne sta buona. «Ma i colpi di coda sono sempre possibili» ammonisce il responsabile dell’Osservatorio epidemiologico dell’Ats Val Padana, Paolo Ricci, che affronta con la Gazzetta i temi più caldi di questa epidemia, dalle Rsa alla sanità lombarda.

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I dati degli ultimi giorni appaiono altalenanti, qual è la situazione?

«L’inizio della cosiddetta fase 2, che ha visto le prime aperture post-lookdown, aveva sollevato qualche preoccupazione perché faceva osservare come la discesa epidemica dei soggetti più giovani, a maggior mobilità sociale, rallentasse rispetto a quella dei più anziani e, quindi, più stanziali. Se c’era qualche dubbio residuo che il rischio di contagio fosse strettamente proporzionale alla mobilità, è stato dissolto. Fortunatamente questa divaricazione non si è complessivamente accentuata, per lo meno fino a quest’ultima settimana. Speriamo continui così, anche se colpi coda sono sempre possibili. Dobbiamo quindi mantenere le necessarie cautele senza cadere nella totale rimozione di un passato che ha solo svoltato l’angolo».

Perché l’epidemia ha straziato le case di riposo?

«Le Rsa sono il luogo in cui si concentrano i soggetti più fragili, sia per l’anzianità, che deprime le difese immunitarie, sia per la gravità di patologie croniche, in grado di limitare pesantemente l’autosufficienza che sostiene la vita fisica e psichica di ciascuno di noi. La pandemia ha agito come una morsa: in prima battuta ha favorito il passaggio di pazienti convalescenti, anche potenzialmente infetti, dagli ospedali alle Rsa per decongestionare strutture sature, in seconda ha rallentato o impedito l’accesso in ospedale di ospiti in Rsa bisognosi di trattamenti sanitari più importanti ».

L’Osservatorio che lei dirige ha messo le Rsa sotto la lente, cosa è emerso finora?

«Questa dinamica a morsa è l’ipotesi suggerita dalle prime osservazioni che stiamo verificando sul territorio dell’Ats attraverso un nostro studio analitico, di cui a beve potremmo fornire i primi risultati. L’obiettivo è di conoscenza del fenomeno, ma anche di finalità preventiva, qualora ci fosse una ripresa dell’epidemia».

Questo dramma delle Rsa poteva essere evitato?

«Alcune cose sì, altre ragionevolmente no, perché l’effetto sorpresa, non tanto per frequenza ma per gravità attesa, è stato travolgente. In mezzo c’è un’ampia zona grigia di difficile valutazione, ma proveremo a capire, affinché almeno quanto accaduto non abbia più a ripetersi».

Esiste la probabilità che il virus torni con la ferocia delle prime settimane?

«Francamente navighiamo a vista, ma non alla cieca, perché sostenuti dalla conoscenza del comportamento di altre epidemie e, soprattutto, dall’esperienza accumulata. In attesa di un vaccino che non è ancora a portata di mano, disponiamo ora di un armamentario, che va dalla prevenibilità del contagio agli accertamenti diagnostici e alle risorse terapeutiche, assolutamente incomparabile rispetto al passato. Pensiamo a quanti pazienti sono deceduti non solo perché l’aria non arrivava ai polmoni per la polmonite, ma anche perché il sangue, a causa dei trombi e degli emboli che si erano formati su pareti di vasi sanguigni aggrediti dall’infiammazione, non arrivava ai polmoni per ossigenarsi. L’utilizzo degli antinfiammatori e, soprattutto, degli anticoagulanti non è stato immediato. Sono state le ecografie cardiache a farci scoprire un fenomeno inatteso. Questo per dire che, anche assumendo l’ipotesi peggiore, che in autunno il virus riprenda come prima, nulla si potrà mai presentare come prima. L’epidemia sarà quanto meno “addomesticata”».

I contagi continuano a concentrarsi in Lombardia. Perché?

«Provocatoriamente mi verrebbe da dire perché ha il Pil più alto di tutte le regioni, e per produrre Pil c’è bisogno di scambi, di persone e di merci. Più intensa è l’economia di mercato, maggiori sono le interconnessioni a livello nazionale e internazionale, e, quindi, le occasioni di contagio. Tutto qui. D’altra parte nella storia dell’umanità le malattie sono sempre state lo specchio della società: prima da cause violente legate ai fenomeni naturali, quindi infettive connesse con la stanzialità resa possibile dall’agricoltura, e poi croniche con l’aumento della speranza di vita e gli effetti dell’urbanesimo. Da ultimo, l’industrializzazione che in questa fase avanzata ci ha fatto capire come la Natura non sia più una fonte illimitata di risorse da depredare, ma un bene limitato di cui prendersi la massima cura».

Sulle pagine di questo giornale il dottor Vittorio Carreri se l’è presa con la cattiva gestione della sanità lombarda. Cosa ne pensa?

«Con Carreri ho avuto pubblicamente incontri e scontri, e sempre importanti in entrambe le direzioni. Ho collaborato con lui in Regione negli anni ’90. Ma ciò che continua ad accomunarci sopra ogni cosa è la condivisione profonda di un “modello” di sanità pubblica che ha dato senso alle nostre vite professionali, quello prodotto dalla legge di riforma che ha istituito il Servizio sanitario nazionale, la mitica 833 del 1978. Un modello partecipato e centrato sul territorio, una coerente filiera che va dalla prevenzione primaria alla riabilitazione, passando per lo screening, la medicina specialistica e la medicina di base. Certamente con qualche limite e vena utopica che meriterebbe un restyling, ma che oggi più che mai rivendica la sua validità e attualità. La diaspora di alcune competenze, quali l’ambiente e parte della sicurezza del lavoro, nonché la separazione ospedale-territorio, più netta in Lombardia che altrove, hanno amplificato i loro effetti negativi proprio in occasione della pandemia. Una diaspora che però ci ha sempre interrogato, tanto da costringerci continuamente a compensarla con importanti progetti di collaborazione tra istituzioni diverse che hanno ospitato ciò che una volta era unito».

Ma se tutto dipende dal “sistema”, il singolo può difendersi in qualche modo? Con le mascherine, ad esempio, che in Lombardia saranno obbligatorie anche all’aperto fino al 30 giugno?

«Sull’utilità delle mascherine per la popolazione generale le evidenze scientifiche sono scarse e tutte mutuate da studi condotti su altre patologie infettive. Le decisioni sono state prese più per deduzioni logiche ed estrapolazioni che per verifiche di efficacia scientificamente validate. Le diverse opinioni tra gli esperti, e della stessa Oms, non sono quindi segno di “confusione”, ma di “insufficienza di prove”. Inoltre, studi più recenti hanno fatto osservare che accanto ai benefici ci sono anche effetti indesiderati, soprattutto nell’uso continuato. Si possono creare sacche di “aria viziata” all’interno della maschera, soprattutto all’inizio del contagio, in grado di favorire l’infezione. Insomma, le mascherine sono un po’ come i farmaci. Ciascuno può avere effetti collaterali in determinate circostanze e, quindi, le maschere vanno usate valutandone il costo/beneficio, che può variare nelle diverse fasi dell’epidemia».

Utili all’inizio, eccessive oggi?

«Diciamo che se all’inizio della fase espansiva l’utilizzo ubiquitario delle mascherine poteva anche essere giustificato, ora la sua limitazione agli spazi chiusi, o comunque particolarmente affollati, appare ragionevole. Ma la cosa peggiore, come per i farmaci, è farne un uso maldestro che purtroppo è estremamente diffuso. E a questo punto una protezione si ribalta nel suo opposto diventando un perfetto veicolo d’infezione, utile solo per costruire altri inceneritori».

A proposito di Rsa, le strutture hanno riaperto ai pazienti ma le visite sono ammesse solo in situazioni di particolare necessità e devono essere concordate. Eccessivo anche questo rigore?

«È abbastanza comprensibile che in una regione sferzata come la Lombardia, in cui si concentra sistematicamente oltre la metà degli infetti e dei deceduti, prevalga qualche eccesso di prudenza. Ma credo sia questione ancora di poco».

E le scuole? La situazione appare pasticciata, tra didattica a distanza, plexiglass in aula, date ballerine per la riapertura a settembre.

«Se per gli adulti ci sono tutte queste incertezze, figuriamoci nei bambini, soprattutto a scuola. Se ci fossero tante aule con pochi bambini, in questa fase sarebbe sufficiente il controllo della temperatura in ingresso e il lavaggio frequente delle mani, viceversa qualche problema si pone, ma non credo possa essere surrogato mettendo i bambini sotto una campana di plexiglass. Anche qui non rimane che provare e monitorare a stretto giro. Indicazioni tempestive, certe e precise non sono esigibili nella situazione data. Facciamocene una ragione».

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