Alfabeto del futuro, Galimberti è pessimista
Il filosofo e sociologo, si mantiene saldo sulle sue convinzioni e mette in guardia contro lo strapotere della tecnica: «La tecnica mette fuorigioco l’uomo e lo farà sparire»
Sabrina PinardiMANTOVA. «Ho sentito questi discorsi importanti e li ho apprezzati. Ma c’è una cosa che non ho sentito. Tutti sono ancora persuasi che la tecnica sia uno strumento nelle mani dell’uomo. Ebbene, non è più così». I relatori che l’hanno preceduto non hanno scalfito, a colpi di ottimismo, il suo pensiero lucido e affilato. Umberto Galimberti, filosofo e sociologo, si mantiene saldo sulle sue convinzioni e mette in guardia contro lo strapotere della tecnica. Lo fa in un teatro che segue in silenzio ogni ottimo della sua lectio magistralis, atto conclusivo della tappa mantovana de l’Alfabeto del futuro. Nel suo racconto parte da Hegel: «A dirci per la prima volta che la tecnica non è più uno strumento nelle mani nell’uomo è stato Hegel. Con un piccolo teorema ci ha detto che quando un fenomeno aumenta quantitativamente non abbiamo solo un aumento quantitativo del fenomeno, ma abbiamo anche un cambiamento qualitativo radicale del paesaggio, e se noi il paesaggio non lo guardiamo in faccia ci muoviamo come a mosca cieca». Il primo a mettere in gioco questo scenario e ad applicarlo alle logiche economiche è stato Marx: «Disse - prosegue il filosofo - che tutti sono persuasi che il denaro sia uno strumento che ha come scopo la soddisfazione dei bisogni e la produzione dei beni, ma se il denaro aumenta quantitativamente fino a diventare una condizione universale per soddisfare qualsiasi bisogno e produrre qualsiasi bene ecco allora che non è più uno strumento, ma è il primo fine».
Applicando questo scenario alla tecnica, «se la tecnica è la condizione universale per realizzare qualsiasi scopo la tecnica non è più un mezzo, ma è il primo scopo, che subordina a sé tutti gli altri scopi». E subordina anche l’uomo. Ma come? «Platone diceva che la politica è una tecnica regia, perché mentre le tecniche sanno come si devono fare le cose, la politica decide perché si devono fare. Oggi, però, la politica per decidere guarda all’economia, e l’economia per decidere i suoi investimenti guarda alle risorse tecnologiche».
Le decisioni, secondo Galimberti, si sono, quindi, spostate nella tecnica. «Ma la tecnica non promuove scopi, non delinea scenari di senso, non dice la verità, non redime. La tecnica funziona. E ha come unico scopo l’auto-potenziamento di sé medesima». Galimberti distingue, quindi, tra tecnica e tecnologia: «Tecnologia è l’insieme di tutti quegli strumenti che abbiamo in mano: questo microfono, il telefono, il frigorifero, l’automobile. La tecnica è invece il punto più alto di razionalità mai raggiunto dall’uomo, che si applica alla tecnologia. Massimo degli scopi con l’impiego minimo dei mezzi: questa è la razionalità della tecnica». E proprio a causa di questa razionalità, la tecnica mette fuori gioco l’uomo, che è nato irrazionale: «Irrazionale è il dolore, irrazionali sono l’amore, il sogno. Tutta questa roba per la tecnica è elemento di disturbo». La conseguenza è che l’uomo diventa semplicemente un funzionario di apparati tecnici e la sua identità è data dal ruolo. «Niente di male: l’identità non è un fattore naturale, è un dono sociale, è prodotto del riconoscimento. E oggi il riconoscimento è dato dall’apparato di appartenenza».
Galimberti cita l’esempio di un impiegato di banca che riceve dal proprio capo il compito di vendere titoli spazzatura. Avrà problemi di coscienza, ma ha scelta? «No, perché se non li vende va fuori gioco, e se li vende configge con se stesso. Ciò che importa non è ciò che fai, ma la buona esecuzione delle azioni prescritte dall’apparato». Se la tecnica diventa la modalità abituale e diventa mentalità collettiva allora nel nostro inconscio si inserisce anche un inconscio tecnologico: «Io sono convinto di questa posizione. È cambiata persino la patologia della depressione: fino al 1960-70 la depressione era organizzata sulle tematiche della colpa. In seguito, ha cominciato a basarsi sul senso di inadeguatezza, sull’efficienza rispetto a ciò che l’apparato chiede». Ed è mutata anche percezione della natura: «Oggi la percepiamo come materia prima. Questo Heidegger lo diceva già nel 1927. Quando c’è vento pensiamo ai mulini, quando c’è un fiume pensiamo all’energia elettrica. È chiaro che il futuro diventerà inesorabilmente sempre più tecnologico, ma stiamo molto attenti. L’uomo andrà sparendo. Perché l’irrazionalità è vista come un limite dalla tecnica. E questo è un grosso rischio. Anzi, è un destino».
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