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Il motore del Rinascimento: antico, presente e del domani

Il denaro, l’investimento ha un profumo preciso: aiuta il pensiero e l’arte a vivere. Fondazioni e collezioni private sono le moderne corti, Mantova insegna molto

stefano scansani
3 minuti di lettura
PNT PHOTOS Daniele Pontiroli Mantova 

MANTOVA. Sponsor, tutor, protector… Non sono parole anglosassoni – anche sela maggioranza di noi ci casca – bensì latine, molto frequenti nelle parlate e nelle carte italiane e perciò mantovane del Rinascimento. Traduzioni rapide: garante, sostenitore, patrono. Queste parole che sembrano esotiche documentano invece il protagonismo intellettuale ed economico dei privati nella cosa pubblica dai tempi che furono. Non è un fenomeno moderno, ma del lascito del mondo classico o di epoche che poi si confrontarono con il classico. Lascito contemporaneo. Più le compagini socioeconomiche sono varie e articolate, più le loro parti contribuiscono e sostengono, più arricchiscono l’insieme.

Se al contrario il sistema è centralizzato, controllato, addirittura autocratico, l’iniziativa del privato muore, e nasce l’arte di regime. Le risorse finanziarie – pubbliche e innanzitutto private – hanno fatto la storia dell’arte, costruito nei secoli il nostro Paese, formato i musei del mondo, le pinacoteche, edificato le piazze dei nostri borghi. Ecco quindi che l’ideologia medievale, secondo cui il denaro è “sterco del diavolo” non rappresentava la realtà, fu fuorviante, in un certo senso fondamentalista, talebana. In verità il denaro è il mezzo che permette alla cultura (arti visive, architettura et similia) di evolvere, fiorire.

Antonio Paolucci, già sovrintendente a Mantova, ministro dei Beni Culturali e direttore dei Musei Vaticani, presentando nel 1995 la mostra “Moneta Arte Storia”, definì il denaro rispetto alla vitalità delle idee e delle imprese culturali: “sangue arterioso”. Dunque, le intraprese intellettuali non sono in contrapposizione con le opere materiali; e la ricchezza, in quanto tale, non è disonesta. Al riguardo noi, da questa parte del mondo, ci siamo fatti prendere un poco la mano dall’atteggiamento penitenziario cattolico (mea culpa…), da certe esagerazioni dei ricchi senza fondo (pecunia non olet…) e dall’ormai anemico azzardo comunista (abolizione della proprietà privata…).

Per committenza o mercato, le opere intellettuali non solo hanno a che fare con il mondo dell’imprenditoria per motivi di immagine, marketing, propaganda dello stesso imprenditore, ma ne vengono ispirate, entrano a far parte di un contesto. Non per nulla una manifestazione d’arte oggi è spesso correlata a una Fondazione, o compresa in una collezione privata. Come un tempo nasceva in una corte ed era esibita in una galleria aristocratica e poi borghese.

È così che il mecenatismo non finisce mai, da prima dello stesso Mecenate, cioè del protettore degli artisti tra cui Virgilio, Orazio e Valerio Rufo, manager della cultura di Augusto imperatore. Dunque, senza Gaio Clinio Mecenate forse poco e niente Bucoliche e Georgiche. E senza Augusto zero Eneide. Questa avventura fattiva che intreccia potere, economia ed arte procede nella storia sino – ad esempio – all’esperienza di Adriano Olivetti con il quale la creatività ha fatto la fabbrica e la fabbrica ha fatto intelletto. Senza economia – quella di respiro moderno, quella del business – non ci sarebbe stato il Rinascimento, che infatti gemmò nella Firenze di inizio Quattrocento che già commerciava con la Francia, le Fiandre, le isole britanniche e il mondo tedesco. La Firenze dei capolavori che noi apprezziamo fu quasi del tutto finanziata dagli uomini d’affari, dai mercanti, dai banchieri che puntualmente si sovrapponevano e intersecavano con le figure dei principi, come i Medici appunto e semmai con i Gonzaga capitani di ventura sì, ma anche latifondisti, agricoltori, allevatori, impresari tessili della lana e della seta.

Al riguardo delle imprese a lungo raggio (d’allora) mi viene in mente – a titolo esemplare – la risposta pronta del marchese Ludovico II Gonzaga all’invito dell’ordine dei Servi di Maria affinché finanziasse di tasca propria il progetto di quel capolavoro fiorentino che è la Tribuna della Santissima Annunziata, firmata dall’archistar Leon Battista Alberti. Lo stesso che a Mantova disegnò S. Sebastiano e S. Andrea. C’era un import e un export delle idee. L’imprenditoria badava a sé stessa anche al di là dei confini, intercettava e si mostrava nei luoghi più esposti alla pubblica opinione.

Per tornare a Mantova è interessante il censimento dei dipinti, delle cappelle, degli altari e di altre opere, sostenuti dalle erogazioni delle associazioni di categoria un tempo chiamate corporazioni, università, gilde. Solo l’organizzazione dei lanaioli – ricchissima – eresse e fece decorare fra gli altri l’Eremo delle Chiodare, un edificio quasi sotterraneo che evocava le grotte mistiche di preghiera, alle spalle di quello che è stato il Circolo Ufficiali di corso Pradella. Le Grotte sono ornate dai sigilli dei soci della corporazione, quelli che oggi si chiamano “brand” e culminano con l’Agnello del Risorto. Simbolo certamente cristologico, ma anche dell’industria della lana e del suo potere nella città per secoli. Queste costruzioni si chiamano evergetiche, perché sono prodotte dall’evergetismo, cioè dal desiderio di compiere buone azioni, quindi atti da lasciare ai posteri… Sempre in modo non disinteressato.

Perché qualsiasi imprenditore, dall’artigiano all’industriale, ha in mente di trasmettere la propria rappresentazione, la storia aziendale, il suo segno. Le corporazioni sostenevano pittura, scultura, architettura, musica, letteratura, teatro, ma anche il decoro urbano e l’educazione popolare. Oggi, come nel passato, questo tipo di vocazione si chiama “liberalità”, cioè quell’azione concreta indirizzata verso il bene comune attraverso i propri mezzi economici. Guarda caso “liberalità” è connessa a “liberismo” che è alla base del sistema economico-finanziario occidentale contemporaneo.

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