Se n’è andato a 98 anni l’ultimo internato: disse no ai nazifascisti
Luigi Bertani fu costretto a lavorare due anni in Germania per l’industria bellica, tornò a Casaloldo nel luglio del 1945

Il 31 dicembre è morto a Casaloldo l'ultimo IMI, ossia l'ultimo Internato Militare Italiano di Casaloldo. Si chiamava Luigi Bertani, figlio di Zefferino e Cecilia Tosi: era nato il 19 febbraio 1924. Fu chiamato alle armi nell’80° Fanteria quando aveva solo 18 anni. L’8 settembre del 1943, quando l'Italia annunciò l'armistizio e di fatto lasciò allo sbando il suo esercito, Luigi si trovava nella caserma Goito di Mantova. La mattina successiva, all’alba, la caserma fu accerchiata dai tedeschi. I prigionieri furono riuniti nel cortile ricavato nell’ex deposito artiglieria fuori Porta San Giorgio. Poi furono caricati su carri bestiame, cinquanta persone per vagone, con una sola finestrella da dove poter respirare. Il viaggio durò diversi giorni a causa delle frequenti interruzioni stradali e dei ponti distrutti dai bombardamenti.
I prigionieri furono fatti scendere a Radebeul, a pochi chilometri da Dresda, dove ricevettero le umilianti offese da parte della popolazione tedesca, che li vedeva come traditori, e poi messi in punizione per un mese nel campo di concentramento. In seguito, un giorno furono radunati in un grande cerchio e avvisati che da allora in poi, se non avessero accettato di unirsi all'esercito nazifascista operante nella Repubblica di Salò, avrebbero dovuto lavorare come schiavi per i tedeschi. Luigi scelse di dire “no” alla guerra. Lavorò per diversi mesi nella fabbrica Rapidoverke che costruiva materiale bellico. Non poteva scrivere a casa, né ricevere lettere. Si cibava di pelli di patate. Lavorava duro e per tante ore al giorno. Luigi ripeteva però, ancora a 80 anni di distanza, che i capi della fabbrica gli volevano bene: ne ricordava pure il nome, Anest Denik e Hans Fisher. Loro gli passavano qualcosa in più da mangiare, una volta che lo avevano conosciuto e ne avevano apprezzato la buona volontà. Fu anche grazie a loro che poté sopravvivere alla fame.
Alla liberazione del campo, dovette camminare per giorni e giorni verso la Cecoslovacchia, divenuta neutrale. Fu anche accolto da alcune famiglie, e dormì spesso nei fienili. Poi giunse al campo di smistamento di Meldorf, dove gli americani radunavano soldati sbandati di varie nazionalità e li convogliavano verso i loro paesi.
Rientrò a casa il primo di luglio del 1945, alla corte Grassi. I suoi familiari non lo attendevano quel giorno. Ma poi fecero una festa che Luigi ricordava ancora con grande gioia, a distanza di oltre settant'anni. Luigi ricevette la medaglia d'onore del presidente della Repubblica come risarcimento morale per le fatiche patite, dalle mani del prefetto di Mantova.
Ogni 25 aprile e 4 novembre era presente come testimone dei combattenti e reduci di Guerra. Solo negli ultimi anni, preferiva celebrare a casa queste ricorrenze, assieme al sindaco di Casaloldo e al presidente dei Combattenti e Reduci, che andavano sempre a trovarlo con la bandiera tricolore.
Luigi fu un caro testimone, sempre disponibile a raccontare la sua epopea soprattutto ai più giovani. Ripeteva spesso che non esiste cosa più brutta al mondo che la guerra, ed invitava tutti a non dimenticare le sofferenze di quei tempi, affinché non avessero a ritornare. Il suo internamento, assieme ad altri settecentomila italiani, rappresentò la prima forma di Resistenza passiva, anche se passò per lunghi decenni sotto silenzio. Il presidente dei Combattenti di Casaloldo, Gian Agazzi lo ricorda come una figura saggia, mite, dolce e allo stesso tempo fiera.
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