Come leggere la Camera Picta: potere, economia e moda del Rinascimento
Esteriorità e sostanza, nello stile più aggiornato in quegli anni. Così la calzabraga del 1400 è la madre della calza contemporanea
STEFANO SCANSANI
Volete vedere e godere una sfilata di moda del pieno Rinascimento italiano? E che sia di alta qualità, larga varietà, dall’abbigliamento da camera ai vestiti da cerimonia, dagli accessori alla tenuta da viaggio? Mise, look, outfit… Tornate nella Camera Picta, più popolarmente conosciuta come Camera degli Sposi, affrescata da Andrea Mantegna fra il 1465 e il 1474 e leggetela per quello che anche è: una esibizione dei modi, i quali sono all’origine delle parole moda e moderno.
Nella stanza del torrione nord del castello di San Giorgio la corte gonzaghesca tra famigliari e famigli veste il meglio, nello stile più aggiornato in quegli anni. Mantegna e il committente, il marchese Ludovico II, realizzando “la più bella camera del mondo” raggiungono moltissimi obiettivi di celebrazione e propaganda politica. Ovvero, l’ottenimento di un rilievo europeo, l’esercizio del potere, cioè il dominio rappresentato attraverso l’unità della famiglia, il suo stile, il proprio abbigliamento. Sono fili, stoffe, tessuti, trame a essere protagonisti della Camera Picta. L’esteriorità diventa sostanza, tutta concentrata in una folla di personaggi reali quasi scolpiti con il colore, in un ideale padiglione quadrangolare le cui tende il vento riesce a scostare solo su due lati. Per regalare due scene distinte e collegate, memorabili.
Sul basamento marmoreo di cerchi incatenati (sempre affrescato) i due “quadri” - secondo la decisiva interpretazione di Rodolfo Signorini - fissano altrettanti momenti focali della corte mantovana e perciò della dinastia. Percorrendo gli affreschi da sinistra a destra, al contrario della nostra istintiva modalità di lettura, i protagonisti vengono sorpresi in abbigliamento domestico e in un’atmosfera di soprassalto (scena della Corte), poi con atteggiamenti rilassati e appagati (scena dell’Incontro). Come a teatro l’interprete principale, che è il marchese Ludovico II, insieme ad altri protagonisti, compie un cambio d’abito passando dal primo al secondo quadro. Anche per evidenziare i tempi diversi di svolgimento della storia, per connotare i mutati stati d’animo, per dirci che il loro guardaroba era ricco e squisito.
La sceneggiatura è nota. La mattina del primo gennaio 1462 la corte s’appresta ad assistere alla messa in cattedrale. Tutti sono agghindati, belli, pronti, straordinariamente vestiti, meno Ludovico II che ancora in vestaglia si attarda sulla sua sedia, il faldistorio, perché un consigliere gli sottopone una comunicazione da Milano. Un biglietto. Bianca Maria Visconti informa che il marito Francesco Sforza è gravemente malato, corre il rischio di morire e il suo Stato di vacillare. Ludovico II, comandante dell’esercito sforzesco è perplesso, consulta il consigliere, gli sussurra all’orecchio parole che possiamo immaginare: questa non ci voleva, correre a Milano il primo giorno dell’anno, d’inverno, proprio quando è pronta la festa per mio figlio Francesco eletto cardinale, di ritorno a Mantova…
L’imprevisto si risolve con una soluzione “in strada”. Ludovico II parte, e incontra il secondogenito a Bozzolo, sulla via per Milano. Il dovere militare del condottiero si confonde con lo spirito paterno, l’arguzia e un umanesimo praticato. Sulle pareti dove ai personaggi certi, identificati, presunti, il pittore e il committente hanno sommato agli altri alleati, amici, famigliari in via ideale: l’imperatore Federico III d’Asburgo, il re di Danimarca Cristiano I, il papa Pio II Piccolomini in effigie (il suo emblema è sui finimenti del cavallo del marchese). La narrazione è immersa in paesaggi che, come avvistati da un drone, intercettano i castelli del Lazio e una Roma stemmata con le aquile gonzaghesche. Esagerato? No, consapevole. Tanto che il Gonzaga decise di cesellare il soffitto con i Cesari, e perforarlo con il celebre Oculo che è il cielo sopra Mantova.
Per essere rappresentati in un così bel modo e mondo, signori e signore, ragazzi e bimbi ritratti nella Camera Picta indossano il meglio, in linea con la circostanza. Ludovico II si fa in due. Nella scena della Corte sfoggia una vestaglia da camera, la “vesta da nocte”, in clamoroso broccato rosa, cangiante, nella trama del quale si intravede una filigrana luminosa. È l’evoluzione della pellanda francese, da cui il termine palandrana. Il marchese esibisce l’abito che deriva dal lucco medievale con totale nonchalance. Perché è la narrazione che conta, l’alba, appena fuori dal letto, prima di indossare gli abiti. Lo dicono anche la pantofola in vista ben piantata sul tappeto orientale, il calcagno nudo del principe. Quanto il copricapo. Il marchese in pigiama, infatti, ha infilata in testa una rossa capitanesca che è segno del comando.
La moglie, Barbara di Brandeburgo, è la più tranquilla, centrale, statuaria, frontale. Anche lei in broccato ma in filo d’oro, ha un’acconciatura particolare: il copricapo alla tedesca è lievemente a forma di corna e sotto il velo si intravede la rasatura alta della fronte così in voga dal Medioevo ai Cinquecento. Elegantoni, gli uomini sfoggiano zornee e farsetti, dunque sopravvesti e giubbotti imbottiti, calzebraghe con i colori gonzagheschi; seducenti, le donne ostentano corpetti e gonne a campana in velluto e damasco, nastri e coroncine fra i capelli. E poi è un frusciare di colletti, camicie candide, cinture, e tanti guanti.
Nella scena dell’Incontro i personaggi ritratti sono solo maschili. Il marchese ora indossa zornea, farsetto, calzabraga d’un unico colore, grigio madreperlaceo. Tono su tono, di sobrio buongusto. I capi del principe sono da giorno e da viaggio, verso Milano con tappa a Bozzolo dove incrocia il figlio cardinale. Con lui anche il primogenito Federico, i nipoti, in un circuito di mani nelle mani, sguardi e capi d’abbigliamento coordinati. Badate ai berretti – ci sono tantissimi berretti -, in questo quadro non ve n’è uno rosso, non v’è una capitanesca rossa come invece è nella scena della Corte. I copricapi sono generalmente in tinta chiara, come quello del marchese che è bigio. Solo il re di Danimarca Cristiano I esibisce una capitanesca violacea, mentre l’imperatore Federico III è l’unico a capo scoperto. Il più eccentrico è Federico, primogenito di Ludovico: ritto sulla destra – nella stessa posizione del padre che è all’estremità opposta – che sfoggia una cappa gialla con foderatura verde. Bianco il berretto con bordo altissimo. Nella Camera Picta tutto è armonico. Come i tendaggi dipinti che imitano il broccato o il corame dorato, alla maniera cordovana e perciò moresca, dov’era il letto con baldacchino del marchese. Al riguardo è significativa la mostra “Le pareti delle meraviglie” della Fondazione di Palazzo Te e il catalogo curati da Augusto Morari nel 2022.
Tutto armonico, come le ali dei putti che s’affacciano dall’Oculo o sostengono la tabella dedicatoria sull’ingresso. È così che un capolavoro ordisce la storia e il suo filo ci disvela poteri, economie, armonie, stili, abilità, ricchezze, secoli. Cosicché la calzabraga quattrocentesca, prodotto dell’agucchieria mantovana, come scuffie e scuffiotti, è la madre d’ogni calza contemporanea.
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