Al Museo archeologico nazionale di Napoli è conservato un famoso cratere greco in cui è raffigurato un simposio, per quello che veramente il simposio era. Oggi la parola evoca subito qualcosa di molto alto, perfino ammantato di un certo alone di snobismo, e dunque la usiamo per connotare cenacoli fra menti elette in cui i convitati sfoggiano tutta la loro vetrina intellettuale. Peccato che due millenni e mezzo fa non fosse proprio così, per la semplice ragione che i nostri antenati sommavano il desco all’alcova, e la tovaglia per così dire alle lenzuola.
Certo, è vero che i simposi erano anche occasioni per dialoghi fra abbienti acculturati intorno ai grandi dilemmi dell’esistenza, ma prima e intorno a questi filosofici scambi si svolgeva il sommo connubio fra cibo e sesso, di cui il cratere napoletano costituisce una prova eloquente: vi si vedono ritratte donne discinte e amorosi intrecci, mentre in primo piano svettano primizie succulente su vassoi e tavolini decorati. Come dire che fino dai tempi del buon Socrate, il piacere del palato non era disgiunto da quello erotico, i simposi erano occasioni per gustare fichi, cipolle, formaggio e vino ma anche per concedersi altre forme di estasi con le cortigiane e le etère che ne erano autentiche sacerdotesse. Perfino la famosa Aspasia, compagna nientemeno che di Pericle, passa alla storia (laddove essa sconfina nella leggenda) come l’eccelsa Ape Regina di una iper-esclusiva maison de rencontre in cui il cibo era un’apoteosi, il vino faceva invidia all’ambrosia e il gotha ateniese smaniava per entrare, compreso il suddetto Socrate.
D’altra parte il banchetto riuniva tutte le pertinenze del divino Dioniso, quindi non solo il piacere dei sensi, l’ebbrezza alcolica e l’entusiasmo della musica, ma anche quell’ancestrale godimento carnivoro che stava nel saziare la fame strappando con le mani, voracemente, brandelli della preda appena cacciata. Siamo ai nastri di partenza di questo viaggio alla ricerca del legame fra cibo ed eros, ed è innegabile che esso sia tenuto a battesimo proprio dalla divinità delle menadi e dei satiri, creature anti-civili cristallizzate ai bisogni primari, quindi non per nulla votate al cibo, al vino e al coito. Questo amalgama di piaceri della carne è peraltro più che naturale, tanto che perfino la scienza moderna ha dovuto dare atto che dal punto di vista neurofisiologico la soddisfazione alimentare è identica a quella erotica, stimolando entrambi la secrezione della dopamina. Lo intuivano, forse, anche i nostri progenitori latini che ricalcarono i riti dionisiaci nella prassi italica del baccanale, un complesso convergere di modelli greci, arcaiche feste della fertilità e gozzoviglie per il ritorno dei pastori dalla transumanza, in un tripudio generalizzato dei sensi che spesso travalicava i limiti del lecito, e nel II secolo a.C. il Senato intervenne proibendoli. Servì? Ne dubito. E infatti, a non molti anni dopo risale la storia di Lucio Lucullo, il cui cognome è divenuto certo proverbiale per conferire le cinque stelline ai banchetti più gaudenti. Ma per il trionfo della dopamina, il sigillo di Lucullo non esalta solo quelle sue mense stratosferiche con porchetta, ostrica, storione dall’Egeo (e le ciliegie, da lui pare importate alle nostre latitudini): guarda caso il nostro eroe era più che noto anche per avventure sessuali assortite, tante e tali da costellarne l’esistenza fra pozioni amorose, iterati matrimoni, gossip di promiscuità varie e consorti dedite agli incesti, dacché si può immaginare quale fosse l’atmosfera dei suoi ricevimenti, in barba ai divieti dell’autorità. Tant’è, diciamo che nel suo Inferno Dante Alighieri avrebbe potuto agevolmente scegliere se confinare Lucullo al secondo cerchio, fra i lussuriosi, o immediatamente al sottostante, destinato proprio ai golosi, in una forma di prossimità davvero estrema fra i due piaceri di cui trattiamo, neanche Dante avesse potuto sbirciare gli articoli scientifici di sei secoli dopo.
Da lì in poi, tocca constatare che la Chiesa, soprattutto nella lunga fase tridentina,
ci andò giù più che severamente contro il nesso cibo-sesso, cogliendovi quella pericolosa alleanza di godimenti che distoglievano dall’abnegazione e dal sacrificio. Noi siamo eredi di quella lunga Quaresima di privazioni, che di fatto ha ingenerato nel tempo un’equazione non solo religiosa ma altresì laica fra la rinuncia e la nobiltà morale, fra la condanna della tentazione e il magistero di chi vive parco, astemio e casto, perché nell’ossessione contemporanea per il rischio, il cibo magari fa ingrassare e il sesso espone a malattie veneree. Non resta allora che rivolgersi a Pier Paolo Pasolini, che annunciò di voler tentare con Petrolio la stesura di un nuovo Satyricon, ovvero l’opera antica che forse più di tutte incarna il vincolo, profondo e atavico, fra la tavola e l’eros. Poteva nascerne qualcosa di epocale, che forse ci avrebbe sintonizzato su una frequenza d’onda purtroppo smarrita, con tutto che appartiene alle viscere del nostro essere umani, e in questa raggelante epoca di sesso virtuale, Intelligenze Artificiali e proteine in pillole, assistiamo narcotizzati all’aprirsi di una faglia di Sant’Andrea fra piaceri che un tempo andavano di pari passo alla corte di Dioniso. Siamo scissi, siamo spaccati, siamo ostaggi di una radicata teoria del controllo che ci impone la rinuncia e la dieta come scandaglio del nostro predominio interiore. Epicuro avrebbe scosso la testa, e con lui Goethe: l’attimo che fugge noi lo lasciamo correr via, mentre ne calcoliamo l’apporto calorico.
Sesso e cibo nella storia
di Stefano Massini
Dai cenacoli dell’antica Grecia ai luculliani banchetti romani, la cultura classica, prima che la scienza lo certificasse, sperimentava la connessione sesso - cibo. Con grande soddisfazione di anima e corpo