Dagli inizi degli anni Duemila la Corea del Sud è riuscita a brevettare un sogno: la glass skin, o pelle di porcellana, per sempre giovane. L’ha proiettato sulla scena mondiale grazie a un’operazione di marketing da fuoriclasse dal valore di 14 miliardi di dollari, tanto le agenzie valutano l’industria della K-beauty entro il 2027. Un impero economico costruito con BB cream, maschere di tessuto, cosmetici di qualità ma a basso prezzo e altre invenzioni diventate patrimonio dello skincare universale.
Elise Hu, giornalista americana e speaker del podcast Ted Talks Daily, ha trascorso a Seul quattro anni come corrispondente del network radiofonico Npr. Nel suo libro Flawless (Penguin Random House, in uscita negli States il 23 maggio) racconta la sua esperienza dentro la K-beauty, i lati oscuri di questa industria e il coraggio delle donne coreane. L’abbiamo raggiunta via Zoom a Los Angeles, dove vive con le sue tre figlie.
Come è nata la Korean beauty?
«La sua esplosione è dovuta alla crisi finanziaria del 1997. Il Fondo monetario internazionale aveva approvato per la Corea un pacchetto di aiuti da 57 miliardi di dollari, il più alto di sempre – che è poi stato ripagato in soli quattro anni, grazie a una grande intuizione. Visto che il Paese non poteva sviluppare tecnologie e infrastrutture militari e difensive per un accordo con gli Usa e non era più soddisfatto delle sue grandi industrie come Samsung, Lg, Hyundai, ha pensato di sviluppare una strategia di soft power, esportando immagini e filosofia positiva. All’inizio c’è stato il K-pop, poi le soap opera, le produzioni televisive e il cinema, finanziati dal governo: l’onda sudcoreana, chiamata Hallyu. Che si è fatta supersonica grazie ai media digitali e dal 2010 ha incluso anche la bellezza con prodotti rivoluzionari come le creme BB».
Lei scrive che in Corea la promozione di standard di bellezza e perfezione inarrivabili è costante e sistematica. Ma non è lo stesso anche in Europa e Usa?
«Ci sono due differenze. La prima è che in Corea del Sud l’immigrazione è quasi assente, non esiste il melting pot, tutti hanno lo stesso colore di capelli, la stessa taglia. È un case study interessante perché permette di osservare una standardizzazione della bellezza molto pronunciata. La seconda: per i coreani la perfezione estetica è legata al successo personale e finanziario e non basta apparire belle, bisogna anche dimostrare di metterci impegno, tempo e soldi. In media, si spendono dai 500 ai 700 dollari di skincare al mese».
E chi non si adegua?
«Le donne sono costrette a curare il proprio aspetto anche per ragioni sociali. Chi non lo fa rimane ai margini, viene discriminato, non trova un impiego, viene considerato pigro e incompetente. Negli annunci di lavoro, anche per posizioni in enti pubblici, spesso si elencano i requisiti fisici necessari: “coppa C, naso all’insù, occhi carini”. Per la laurea alle ragazze si regalano voucher per botox e per interventi di chirurgia estetica».
Nel libro lei parla di lookism. Che cos’è?
«È la discriminazione in base all’aspetto fisico che porta anche a un sessismo istituzionale. La fat phobia è aggressiva, il 60% delle donne è sottopeso, il 40% si è sentita discriminata per il suo look nei colloqui di lavoro. La pressione è insostenibile. E anche se ti adegui resta sempre il dubbio di non essere mai abbastanza».
Su di lei che effetto ha avuto?
«Quando ero teenager ho sofferto di disturbi alimentari. Ma poi sono guarita, mi consideravo al sicuro. Seul si è rivelata un trigger, con il costante bombardamento di corpi perfetti in cartelloni, video, pubblicità. Mi ha fatto rivivere vecchie emozioni e mi ha di nuovo fatta sentire non adeguata. Per esempio, era difficilissimo per me trovare dei vestiti. La maggior parte dei negozi ha una sola taglia, che corrisponde alla 40».
Perché le donne non si ribellano?
«Lo stanno facendo. Il Me Too è stato molto forte in Corea ed è nato il movimento di liberazione Escape the corset. Nel 2018 le donne sono scese in strada. In Occidente non abbiamo mai protestato perché la società ci impone di essere perfette».
Si potrebbe anche vedere diversamente: la bellezza come mezzo di empowerment.
«Non giudico e non critico chi sceglie la chirurgia estetica per spostarsi da una classe sociale all’altra, come avviene in Corea. Però domandiamoci: è davvero una scelta libera? Lo sarebbe se queste donne potessero decidere altrimenti. Ma se il no comporta un prezzo alto da pagare come la perdita del lavoro o la solitudine, allora non è libertà».
Lei incolpa anche la tecnologia.
«Soprattutto la Gen Z è bombardata da filtri e immagini fake. Lo schermo offre possibilità infinite di perfezionare volti e corpi fino a stravolgerli e a renderli del tutto artificiali».
Salva qualcosa della bellezza coreana?
«Vorrei fosse chiaro che nel libro celebro la bellezza e le donne coreane. Quello che mi disturba è la standardizzazione. Detto questo, non ho mai adottato i famosi dieci step della loro skincare ma ho imparato la prevenzione: l’uso della crema solare in grande abbondanza. E adoro anche la detersione con l’olio, che rimuove a fondo il makeup. Prima non l’avrei mai usato».