E' UNA parola da maneggiare con cura, perché è un’arma a doppio taglio. A seconda del verso in cui la si prende, può farci ricadere nell’incubo o suonare il “liberi tutti”. Sul suo significato si sono accapigliati gli esperti, sulla sua base sono state prese decisioni politiche dubbie. Insomma, quando si parla di “stagionalità” nell’ambito del coronavirus bisogna andarci con i piedi di piombo. La domanda è: l’andamento dell’epidemia, dal marzo scorso a oggi, può farci pensare che Sars-Cov2 si comporti come la classica influenza, con un picco di contagi tra ottobre e febbraio e un calo nei mesi estivi? E soprattutto, se così fosse, in che modo questa consapevolezza dovrebbe riflettersi sulle scelte da compiere nelle prossime settimane? Detto e ribadito che mascherine, distanziamento e igiene delle mani restano gli strumenti principali per evitare il contagio, riconoscere un eventuale ritmo nella Covid-19 potrebbe aiutarci a capire che inverno ci aspetta.
Un concetto che potrebbe spiegare l’andamento estivo della pandemia in Italia: sulle spiagge, in montagna, nei tavolini all’aperto, il virus ha meno possibilità di trasmettersi da un individuo all’altro. Dunque, continua Mastroianni, quello che sta succedendo ora non arriva in modo del tutto inaspettato. Ma attenzione: la Covid-19 ha ripreso a diffondersi già a fine agosto, quando le temperature certo non erano basse. E non dimentichiamoci che i coronavirus sono pur sempre quelli del raffreddore, malattia che ci colpisce anche d’estate. Se SARS-CoV-2 si comportasse come il virus dell’influenza, tornerebbe ogni anno più o meno alla stessa data. Un dato che ci aiuterebbe molto conoscere, per regolarci di conseguenza in moltissime scelte. Ma al momento, conclude Mastroianni, è impossibile fare previsioni, come dimostra ad esempio il caso degli Stati Uniti, in cui l’epidemia si è diffusa indisturbata negli Stati del Nord e del Sud senza un chiaro andamento stagionale.
“Inserire nel modello il meccanismo dell’irraggiamento consente di riprodurre in modo molto accurato l’andamento dei contagi”, spiega infatti Fabrizio Nicastro, astrofisico all’INAF e tra gli autori del lavoro. In fondo, continua il ricercatore, ogni giorno dell’anno arriva sulla terra la stessa quantità di fotoni dell’anno precedente, il che rappresenta un dato molto utile quando si esamina l’evoluzione di un’epidemia nel tempo. E questo ha fatto il gruppo di ricerca italiano, partendo da un dato ormai noto: l’azione degli ultravioletti su Sars-CoV-2. “Abbiamo preso il virus, lo abbiamo inglobato nelle droplets e posto anche su superfici plastiche”, spiega Mario Clerici, immunologo all’Università Statale di Milano e alla Fondazione Don Gnocchi. “Poi lo abbiamo irradiato con raggi UV-C. Ebbene, è sufficiente una dose anche molto piccola per pochi secondi perché il virus venga inattivato. In sostanza, quando viene inserito nelle cellule, non si replica”. E però, continua l’immunologo, i raggi UV-C non solo sono pericolosi per la salute umana, ma soprattutto non arrivano a terra, essendo bloccati dallo strato di ozono.
Così i ricercatori hanno ripetuto l’esperimento con i raggi UV-A e UV-B. Anche in questo caso, una dose relativamente ridotta è stata in grado di inattivare il 99 per cento del virus. Nella realtà, però, le condizioni sono diverse da quelle di laboratorio. “La quantità di raggi ultravioletti letali per il virus è relativamente bassa, e abbiamo sempre pensato che in natura non fosse importante”, aggiunge Nicastro. Ma se l’effetto è piccolo, è vero anche che è quotidiano, ricorre ogni giorno e si ripete identicamente ogni anno. È una tipica combinazione di fenomeni fisici di “battimento” e “risonanza” fra le frequenze caratteristiche del fenomeno di irraggiamento solare a terra (l’inverso dei periodi di 24 ore e 365 giorni), e un’altra frequenza tipica dell’epidemia: quella della perdita di immunità. “Pensiamo a un plotone di centinaia di soldati che marciano in modo altamente sincronizzato su un ponte: se la frequenza dei passi entra in risonanza con le frequenze caratteristiche della struttura del ponte, questo può crollare. Ecco, la combinazione di questi due fattori, alla lunga, innesca la stagionalità del fenomeno”.
Il presunto effetto-disinfettante del sole è stato dunque messo alla prova dagli studiosi, che hanno comparato i dati epidemiologici da gennaio a giugno per 225 paesi del mondo, sovrapponendoli a quelli relativi all’irraggiamento. “C’è una relazione inversa molto netta: più irraggiamento equivale a meno casi”, dice Clerici, secondo cui questo modello è in grado di spiegare non soltanto il gradiente Nord/Sud globale ma anche quello che si osserva nella nostra penisola. E persino il caso Africa: qui i paesi della regione equatoriale mostrano un andamento stabile dei contagi, mentre quelli del Sudafrica nell’emisfero sud mostrano un andamento inverso del tutto paragonabile a quello che osserviamo oggi nell’emisfero nord. Poca o nessuna correlazione, invece, con i dati relativi a temperatura e umidità dell’aria.
Resta però un problema di fondo, come ben sottolinea un gruppo di ricercatori della Georgetown University di Washington. E cioè quello di utilizzare al meglio ciò che sappiamo sulla stagionalità della pandemia. “Idee sbagliate sul modo in cui il clima e le condizioni meteorologiche influenzano l'esposizione e la trasmissione di Sars-CoV-2 creano falsa fiducia e hanno influenzato negativamente la percezione del rischio”, scrivono su Nature Communication. In altre parole: quello della stagionalità è un concetto complesso, dalle mille sfumature, che può essere declinato in modi diversi e sul quale, per altro, non c’è totale accordo nella comunità scientifica. E non deve essere usato a sproposito per abbassare la guardia in quelle aree del mondo in cui il clima sembra favorire la riduzione dei contagi. "Le condizioni meteorologiche probabilmente influenzano la trasmissione di COVID-19, ma non su una scala sufficiente a superare gli effetti dei lockdown o delle riaperture", scrivono gli autori. E dunque la stagionalità non è un tema che debba influenzare le scelte politiche. Riteniamo, concludono i ricercatori, che tutti gli interventi farmacologici e non farmacologici abbiano un impatto maggiore sulla trasmissione rispetto a qualsiasi fattore ambientale. E quindi, con gli attuali dati in nostro possesso, gli interventi per rallentare il contagio non possono essere pianificati (solo) in base alla stagionalità.
Pochi casi in Alaska
La questione, come si diceva, è molto controversa. Soprattutto perché dentro il calderone della stagionalità si mescolano tanti concetti diversi. Il primo, più evidente almeno all’apparenza, riguarda la temperatura. I virus respiratori, e nella fattispecie l’attuale coronavirus, si diffondono meglio con il freddo? Il luogo migliore dove andare a verificare questa ipotesi, come ha fatto qualche giorno fa il New York Times, è l’Alaska. Qui, fino a poche settimane fa, si registravano pochissimi casi, tutti individuati e isolati grazie a uno dei più efficienti tracciamenti degli Stati Uniti e il numero più basso di casi di infezione procapite. Certo, gli infiniti spazi a disposizione e una densità di popolazione bassa certamente hanno limitato la circolazione del virus. Eppure con l’arrivo dell’autunno, e il ritorno alle attività sociali al caldo delle quattro mura, i numeri stanno ricominciando a salire in modo preoccupante. La percentuale di persone risultate positive è raddoppiata nelle ultime settimane, e alcuni villaggi sono stati messi in lockdown.Il freddo
Il fatto che i virus respiratori prediligano i climi freddi (e asciutti, come vedremo) non è una novità. E Sars-CoV-2 sembrerebbe non fare eccezione: gli studi condotti fino ad ora mostrano come le zone dove la trasmissione è maggiore siano distribuite lungo una fascia alle medie latitudini (tra 30° e 50 °N), con temperature medie comprese tra i 5 e gli 11 gradi centigradi, e bassi valori di umidità relativa. Una prova a supporto arriva anche dai luoghi nei quali l’infezione si è diffusa più velocemente che altrove: gli impianti di lavorazione delle carni, dove gli addetti operano alle basse temperature e con scarso ricambio di aria. Oltre a preferire il freddo, è vero anche l’opposto: il virus teme il caldo. Uno dei primi studi di review condotti sul tema, a firma di un gruppo di ricercatori tedeschi e pubblicato sul Journal of Hospital Infection nel marzo di quest’anno, aveva in effetti notato come una disinfezione di una superficie infetta a 60 gradi per 30 minuti, a 65 gradi centigradi per 15 minuti e a 80 gradi per un minuto fosse in grado di ridurre fortemente l’infettività del coronavirus, perché, scrivono i ricercatori, le temperature elevate intaccano l’involucro esterno, composto da lipidi, che racchiude l’RNA virale.L'umidità
Un’altra importante variabile è l’umidità, che anche nel caso del nuovo coronavirus sembra giocare un ruolo importante. Lo mette nero su bianco uno studio condotto a Sydney nella fase iniziale dell'epidemia di Covid-19 da Michael Ward, epidemiologo della Sydney School of Veterinary Science presso l'Università di Sydney, e due ricercatori della Fudan University di Shanghai, Cina. Secondo Ward, questo studio si aggiunge a una crescente massa di prove secondo cui l'umidità è un fattore chiave nella diffusione di Coronavirus. O meglio, l’assenza di umidità, perché il coronavirus sembra preferire l’aria fredda ma secca. Per una diminuzione dell'1% dell'umidità relativa, i casi di Covid potrebbero aumentare del 7-8%, scrivono infatti i ricercatori su Transboundary and Emerging Diseases. Ma quali sono le ragioni biologiche alla base di questo fattore così importante nella trasmissione dei virus respiratori? "Quando l'umidità è più bassa, l'aria è più secca e riduce la grandezza degli aerosol (cioè le particelle più piccole delle goccioline, ndr)", spiega Ward. "Quando si tossisce o si starnutisce, questi aerosol infettivi possono restare sospesi nell'aria più a lungo, aumentando l'esposizione per le altre persone. Quando l'aria è umida e gli aerosol sono più grandi e più pesanti, cadono a terra o sulle superfici più velocemente”, conclude Ward, riducendo in qualche modo le possibilità di contagio, soprattutto in presenza dei due strumenti principali della prevenzione, mascherina e distanziamento.Le stagioni dei virus
Se davvero un clima freddo e secco è l’habitat ideale per Sars-CoV-2, è evidente che ci aspettando tempi duri. “Chi si occupa di infezioni respiratorie conosce molto bene il concetto di stagionalità”, concorda Claudio Mastroianni, direttore dell’Unità Operativa Complessa di Malattie infettive al Policlinico Umberto I di Roma e vicepresidente della Società Italiana di Malattie Infettive e Trasmissibili (SIMIT). “Lo osserviamo tutti gli anni con un evento come l’influenza, che si verifica con certezza quasi matematica da ottobre a febbraio/marzo, con poche eccezioni. Conosciamo altri virus che invece prediligono condizioni diverse, il caldo e l’umido. La cosiddetta stagionalità, però, è fatta di tante cose: non soltanto di condizioni climatiche, ma anche di fattori sociali, di comportamenti individuali e collettivi. E’ evidente – continua l’infettivologo – che nelle stagioni in cui passiamo più tempo all’aperto il rischio di trasmissione è minore, mentre quando ci aggreghiamo in luoghi chiusi e poco areati il rischio sale”.
Non muore durante l'estate
Un concetto che potrebbe spiegare l’andamento estivo della pandemia in Italia: sulle spiagge, in montagna, nei tavolini all’aperto, il virus ha meno possibilità di trasmettersi da un individuo all’altro. Dunque, continua Mastroianni, quello che sta succedendo ora non arriva in modo del tutto inaspettato. Ma attenzione: la Covid-19 ha ripreso a diffondersi già a fine agosto, quando le temperature certo non erano basse. E non dimentichiamoci che i coronavirus sono pur sempre quelli del raffreddore, malattia che ci colpisce anche d’estate. Se SARS-CoV-2 si comportasse come il virus dell’influenza, tornerebbe ogni anno più o meno alla stessa data. Un dato che ci aiuterebbe molto conoscere, per regolarci di conseguenza in moltissime scelte. Ma al momento, conclude Mastroianni, è impossibile fare previsioni, come dimostra ad esempio il caso degli Stati Uniti, in cui l’epidemia si è diffusa indisturbata negli Stati del Nord e del Sud senza un chiaro andamento stagionale.
I raggi ultravioletti
C’è però un terzo fattore che sta emergendo con prepotenza in diversi studi, l’ultimo quello condotto dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) in collaborazione con l’Università statale di Milano, l’Agenzia Regionale per la protezione dell’Ambiente (ARPA) della Lombardia e l’IRCCS Fondazione Don Gnocchi, e pubblicato su iScience: il ruolo dei raggi ultravioletti (C, B e A) nella diffusione della pandemia. In altre parole: la stagionalità delle epidemie respiratorie, di quelle influenzali e anche di quella di Covid-19, sarebbe dovuta in buona parte – anche se non solo – alla quantità di irraggiamento solare che arriva a terra durante il giorno. Il modello messo a punto dal gruppo di ricerca spiegherebbe insomma la stagionalità dell’influenza, il suo ciclo annuale e biennale, e anche perché la stagione influenzale finisca prima che venga raggiunta l’immunità di gregge, che si attiva oltre il 70-80 per cento di persone colpite mentre la pandemia di influenza si arresta tipicamente quando ha coinvolto appena il 10 per cento della popolazione suscettibile.“Inserire nel modello il meccanismo dell’irraggiamento consente di riprodurre in modo molto accurato l’andamento dei contagi”, spiega infatti Fabrizio Nicastro, astrofisico all’INAF e tra gli autori del lavoro. In fondo, continua il ricercatore, ogni giorno dell’anno arriva sulla terra la stessa quantità di fotoni dell’anno precedente, il che rappresenta un dato molto utile quando si esamina l’evoluzione di un’epidemia nel tempo. E questo ha fatto il gruppo di ricerca italiano, partendo da un dato ormai noto: l’azione degli ultravioletti su Sars-CoV-2. “Abbiamo preso il virus, lo abbiamo inglobato nelle droplets e posto anche su superfici plastiche”, spiega Mario Clerici, immunologo all’Università Statale di Milano e alla Fondazione Don Gnocchi. “Poi lo abbiamo irradiato con raggi UV-C. Ebbene, è sufficiente una dose anche molto piccola per pochi secondi perché il virus venga inattivato. In sostanza, quando viene inserito nelle cellule, non si replica”. E però, continua l’immunologo, i raggi UV-C non solo sono pericolosi per la salute umana, ma soprattutto non arrivano a terra, essendo bloccati dallo strato di ozono.
La multifattorialità
Così i ricercatori hanno ripetuto l’esperimento con i raggi UV-A e UV-B. Anche in questo caso, una dose relativamente ridotta è stata in grado di inattivare il 99 per cento del virus. Nella realtà, però, le condizioni sono diverse da quelle di laboratorio. “La quantità di raggi ultravioletti letali per il virus è relativamente bassa, e abbiamo sempre pensato che in natura non fosse importante”, aggiunge Nicastro. Ma se l’effetto è piccolo, è vero anche che è quotidiano, ricorre ogni giorno e si ripete identicamente ogni anno. È una tipica combinazione di fenomeni fisici di “battimento” e “risonanza” fra le frequenze caratteristiche del fenomeno di irraggiamento solare a terra (l’inverso dei periodi di 24 ore e 365 giorni), e un’altra frequenza tipica dell’epidemia: quella della perdita di immunità. “Pensiamo a un plotone di centinaia di soldati che marciano in modo altamente sincronizzato su un ponte: se la frequenza dei passi entra in risonanza con le frequenze caratteristiche della struttura del ponte, questo può crollare. Ecco, la combinazione di questi due fattori, alla lunga, innesca la stagionalità del fenomeno”.Il presunto effetto-disinfettante del sole è stato dunque messo alla prova dagli studiosi, che hanno comparato i dati epidemiologici da gennaio a giugno per 225 paesi del mondo, sovrapponendoli a quelli relativi all’irraggiamento. “C’è una relazione inversa molto netta: più irraggiamento equivale a meno casi”, dice Clerici, secondo cui questo modello è in grado di spiegare non soltanto il gradiente Nord/Sud globale ma anche quello che si osserva nella nostra penisola. E persino il caso Africa: qui i paesi della regione equatoriale mostrano un andamento stabile dei contagi, mentre quelli del Sudafrica nell’emisfero sud mostrano un andamento inverso del tutto paragonabile a quello che osserviamo oggi nell’emisfero nord. Poca o nessuna correlazione, invece, con i dati relativi a temperatura e umidità dell’aria.
Stati Uniti
A non entrare bene nel modello sembrerebbe il caso Usa: in realtà, aggiunge Nicastro, anche qui si è osservata la stagionalità per il Covid-19. Il fenomeno si è di gran lunga ridotto in piena estate boreale e sta riprendendo ora. Solo che l’effetto è stato più “sporco” a causa delle abitudini degli abitanti (vita al chiuso con aria condizionata, veicolo di contagio) e con una gestione dell’epidemia spesso più blanda che altrove. Insomma, la sostanza è che per un’epidemia come quella provocata da Sars-CoV-2, che è intrinsecamente molto contagioso - R0~3-4 - il sole fa quello che può, ma non può fare miracoli. L’effetto solare è tanto più dominante - rispetto ad altre misure esterne - quanto minore è R0.Resta però un problema di fondo, come ben sottolinea un gruppo di ricercatori della Georgetown University di Washington. E cioè quello di utilizzare al meglio ciò che sappiamo sulla stagionalità della pandemia. “Idee sbagliate sul modo in cui il clima e le condizioni meteorologiche influenzano l'esposizione e la trasmissione di Sars-CoV-2 creano falsa fiducia e hanno influenzato negativamente la percezione del rischio”, scrivono su Nature Communication. In altre parole: quello della stagionalità è un concetto complesso, dalle mille sfumature, che può essere declinato in modi diversi e sul quale, per altro, non c’è totale accordo nella comunità scientifica. E non deve essere usato a sproposito per abbassare la guardia in quelle aree del mondo in cui il clima sembra favorire la riduzione dei contagi. "Le condizioni meteorologiche probabilmente influenzano la trasmissione di COVID-19, ma non su una scala sufficiente a superare gli effetti dei lockdown o delle riaperture", scrivono gli autori. E dunque la stagionalità non è un tema che debba influenzare le scelte politiche. Riteniamo, concludono i ricercatori, che tutti gli interventi farmacologici e non farmacologici abbiano un impatto maggiore sulla trasmissione rispetto a qualsiasi fattore ambientale. E quindi, con gli attuali dati in nostro possesso, gli interventi per rallentare il contagio non possono essere pianificati (solo) in base alla stagionalità.