Una domanda che mi viene spesso fatta in questo periodo pandemico, caratterizzato dalle super immuno-evasive varianti Omicron di SARS-CoV-2, è come sia possibile che persone ultra-vaccinate si infettino più o meno quanto quelle poco o non vaccinate affatto.
La mia risposta, uguale a quella dei tanti colleghi che studiano questa materia è sì, vero, il vaccino non ci protegge più dall'infezione, però fa sì che all'infezione generalmente non segue una malattia grave, un Covid-19 che ci porta in ospedale se non in terapia intensiva o talvolta al camposanto. Non mi pare cosa da poco, e giustifica ampiamente le tre o quattro dosi vaccinali.

Come fa il vaccino a proteggerci dalla malattia se non blocca l'infezione?
Per fortuna, soprattutto per chi fa di mestiere il ricercatore, c'è sempre qualcuno che ne vuole sapere di più, riflette e ragiona, e me ne fa un'altra di domanda: come fa il vaccino a proteggerci da una brutta malattia se non riesce a fermare l'infezione, cioè l'ingresso nel nostro organismo di quello che è poi l'agente causale della malattia?
Non è insolito che molte persone non abbiano le idee chiare sulla distinzione fra infezione e malattia, alcune volte non ce l'hanno neanche gli esperti o perlomeno fanno spesso confusione fra le due cose. D'altro canto, il miglior vaccino contro una malattia infettiva e trasmissibile è sempre quello che bloccando l'infezione, impedendo cioè al virus di entrare nel nostro organismo, la malattia te la blocca a monte e ti evita la lotta col virus dentro di te.
I vaccini sono una barriera? Non tutti
In un certo senso, è quasi automatico che la gente pensi che questo sia il modo in cui i vaccini funzionano, una barriera che tiene lontano il virus dal nostro organismo o lo espelle rapidamente quando riesce ad entrarci. E ci sono vaccini così, un esempio comune è quello del morbillo, impedisce l'infezione e la sua trasmissione.
Non che i vaccini anti-Covid che stiamo usando non ci provino a fare anticorpi che bloccano l'infezione, li fanno in abbondanza ma durano troppo poco, solo qualche mese, e le mutazioni del virus fanno il resto, per cui ora, le ultime varianti di Omicron, eredi di Omicron BA.5 come Cerberus ed XBB.1 di fatto non si lasciano neutralizzare da alcun anticorpo, generato che sia dalla vaccinazione o dall'aver superato la malattia.
Il peccato originale: l'immuno-imprinting
E poi, a fare un quadro completo dell'immunoevasione anticorpale, ci si mette pure il peccato originale, detto anche immuno-imprinting, quel fenomeno ben noto agli immunologi, che recita così: se ti infetti con Omicron è più probabile che il virus ti re-infetti se sei vaccinato che non vaccinato.
Il booster vaccinale con lo spike di Omicron ti fa fare più anticorpi neutralizzanti contro lo spike di Wuhan, quello delle prime dosi del vaccino che quello contro Omicron. Così, il mancato blocco dell'infezione, permette al virus di continuare a trasmettersi nella popolazione e a mutare sotto la pressione selettiva esercitata anche dalla vaccinazione.
La speranza per il futuro: i vaccini orali o nasali
Abbiamo un dannato bisogno di vaccini che bloccano l'ingresso del virus sulle nostre mucose, cioè vaccini i mucosali, somministrati per via nasale od orale. Se ne stanno facendo, nei modelli preclinici funzionano ma nell'uomo non lo sappiamo ancora, auguriamoci che almeno qualcuno della trentina in sperimentazione sia sicuro ed efficace.

Ma allora cosa ci protegge dalla malattia anche se siamo infetti?
Ma torniamo alla domanda iniziale, cosa ci protegge dalla malattia anche se infetti. Non dovrebbe essere una novità per chi ha avuto la pazienza di leggere vari recenti articoli su Salute, compresi i miei: tutti i ricercatori in quest'area ormai riconoscono un ruolo fondamentale all'immunità cellulo-mediata, quella cioè espressa da cellule del nostro sistema immunitario capaci di bloccare e uccidere il virus, magari con l'aiuto di speciali anticorpi (non quelli neutralizzanti l'infezione).
Si tratta di linfociti T, cellule presenti nel sangue, nella linfa e in organi quali midollo osseo, milza, linfonodi. Pattugliano di continuo l'organismo cercando di riconoscere e se possibile eliminare microbi patogeni e cellule tumorali.
Diversamente dall'altra grande categoria dei linfociti B, quelli che producono gli specifici anticorpi contro lo spike virale, i linfociti T da un lato aiutano i linfociti B a produrre questi anticorpi, dall'altro possono attivarsi con la stimolazione vaccinale e così esercitare una diretta e altrettanto specifica azione inibitoria e citocida sul virus e sulle cellule da esso infettate, impedendone la diffusione e il conseguente danno patologico, la malattia.

L'importanza dei linfociti T
Come hanno recentemente sottolineato Maringer e collaboratori in un importante contributo pubblicato su Science Immunology, la nostra attenzione in questa pandemia è stata soprattutto rivolta agli anticorpi neutralizzanti, cioè quelli che impediscono l'infezione bloccando il legame fra la proteina spike e il recettore cellulare ACE-2. Ma pochi altri ricercatori hanno specificamente studiato il ruolo dei linfociti T e ora c'è una piuttosto robusta evidenza della loro importanza nella risposta immunitaria, con una risposta duratura e memoria conservata nelle diverse varianti.
Molto rilevanti in questa area sono state le ricerche condotte da Alba Grifoni, Alessandro Sette e i loro collaboratori a La Jolla, in California. Quindi, alla seconda giusta domanda di come faccia un vaccino che non protegge dall'infezione a proteggerci dalla malattia, una risposta, anche se al momento ancora parziale, c'è, e riguarda l'immunità antivirale mediata da cellule linfocitarie.
A questo punto, un tipo davvero curioso, potrebbe farmi quest'altra domanda: se il vaccino non ci protegge dall'infezione in quanto il virus è mutato in quelle sezioni della proteina Spike (che chiameremo epitopi B), prima bloccate dagli anticorpi neutralizzanti, perché questo non succede con quelle parti della proteina (che chiameremo epitopi T), quelle contro cui sono specificamente generate ed attivate i linfociti T?, Se anche queste mutassero, non saremmo più protetti dalla malattia con questo vaccino. Se lo siamo ancora oggi, con un virus che ha più di 50 mutazioni della proteina spike, è perché gli epitopi T dello spike di Wuhan non sono mutati?
Nonostante le varianti, la proteina S è ancora ben riconoscibile dai linfociti
Abbiamo ora raggiunto il punto nodale della nostra discussione con l'acuto interrogante che ha, per ora, una sola probabile risposta: molte delle parti della proteina S che sono riconosciute dall'immunità cellulo mediata non hanno subito lo stesso destino di quelle contro cui sono generati gli anticorpi neutralizzanti. Sono ancor oggi, anche con l'ultima sub-variante di Omicron BA.5 largamente conservate e riconoscibili dai linfociti.
Questa conclusione è avvalorata dalle ultime ricerche eseguite nella Castigliana Università di Murcia, antica quanto la nostra di Padova (fine tredicesimo secolo), dove il gruppo di ricerca dei professori Martinez e de la Fuente, con numerosi collaboratori internazionali, hanno dimostrato che almeno otto sequenze peptidiche riconoscibili come epitopi T della proteina spike non sono cambiate da Wuhan ad adesso.
Il Santo Protettore
Perché si siano così conservate, mentre tanta parte della stessa proteina è cambiata, non è facile dirlo. Forse semplicemente perché se mutano il virus perde la capacità replicativa, sono mutazioni letali.
La cosa interessante è che i sopradetti ricercatori, attraverso studi complessi di matematica combinatoriale, immuno-informatica e intelligenza artificiale avevano predetto sin dall'inizio della pandemia che queste sequenze costituivano zone mutazionali fredde della proteina! Ora, fine 2022, hanno confermato che quei peptidi sono rimasti stabili. E se sarà dimostrato che sono proprio queste stabili sequenze della proteina spike il bersaglio delle risposte cellulo mediate che fanno sì che all'infezione da SARS-CoV-2 non segua una grave, talvolta letale malattia, allora è il caso di definire collettivamente questi peptidi come il nostro santo protettore.
Antonio Cassone è membro dell'American Academy of Microbiology