Se lo avesse saputo, invece di intraprendere un “viaggio della speranza” verso la Città di Smeraldo, l'omino di latta del Mago di Oz avrebbe forse bussato alle porte dell'Università di Tel Aviv, per avere il suo cuore nuovo e tornare ad amare. Perché è proprio qui che un gruppo di ricercatori guidati da Tal Dvir della TAU School of Molecular Cell Biology and Biotechnology ha da poco annunciato di avere "stampato" il primo cuore vascolarizzato in 3D utilizzando le cellule e i materiali biologici di un paziente. Un risultato storico che sposta un po' più in avanti i limiti che la stampa 3D di organi e tessuti ha avuto sino ad oggi. E che potrebbe risolvere nell'arco di un decennio la cronica carenza di organi destinati al trapianto. Ad aspettare un cuore – o un altro organo fondamentale per la loro sopravvivenza – sono infatti almeno 14 mila pazienti solo in Europa, secondo le stime della Eurotransplant International Foundation, e 113 mila negli Stati Uniti, come dice il governo americano. E sebbene nel 2016 siano stati effettuati nel mondo oltre 135 mila trapianti (15,5 ogni ora), con un incremento di diversi punti percentuali sull'anno precedente e un trend in crescita, è ormai chiaro che non ci sono organi per tutti. Per questo la ricerca sta sperimentando altre strade per dare una speranza ai pazienti in attesa. E una delle più promettenti è proprio quella della stampa 3D, un settore cui non soltanto i medici, ma anche gli analisti di mercato guardano con estremo interesse, se è vero che il giro d'affari è destinato a raggiungere i due miliardi e mezzo di dollari entro il 2024 (nel 2016 il mercato superava di poco i 400 milioni di dollari).
“L’idea base della stampa 3D – spiega Lorenzo Moroni, docente di Biofabrication for Regenerative Medicine all'Università di Maastricht, nei Paesi Bassi - è quella di creare delle matrici porose dove le cellule possano “trovarsi bene” e rigenerare il tessuto che ci interessa”. Pensiamo alla costruzione di una casa: per procedere nel lavoro, continua Moroni, c’è bisogno innanzitutto di un’impalcatura all’interno della quale gli operai possano muoversi in sicurezza per tirar su le mura della casa mattone per mattone. Nel caso della biologia, l’impalcatura (che chiamiamo scaffold) è la matrice porosa all’interno della quale si “seminano” le cellule che, come gli operai, tirano su le mura, ovvero creano le proteine per la rigenerazione del tessuto. Disegnando in un determinato modo i pori, ovvero gli spazi entro cui le cellule si sistemano, si possono influenzare alcune caratteristiche dello scaffold, ad esempio la sua maggiore o minore rigidità. Per ottenere tessuti diversi, spiega ancora Moroni, è invece necessario inserire nel terreno di coltura i fattori biologici presenti nella zona in cui il tessuto dovrebbe riformarsi. “Possiamo poi indurre le cellule staminali a differenziarsi modificando alcune proprietà fisiche, come per esempio le caratteristiche superficiali della matrice: il fatto di essere più liscia o più rugosa influenzerà la differenziazione delle cellule”, aggiunge Moroni, nel cui laboratorio si sta lavorando a una coltura per la cartilagine delle articolazioni, per le ossa del cranio e le ossa lunghe.
“Oggi non siamo ancora in grado di stampare un organo per impiantarlo – frena Riccardo Gottardi, Principal Investigator Ri.MED che al Bioengineering and Biomaterials Lab del Children's Hospital di Philadelphia (Usa) sta lavorando a un modello in vitro dell'articolazione umana per lo studio di patologie come l'artrosi – ma negli ultimi anni sono stati fatti molti progressi, ad esempio sui grandi tessuti vascolarizzati, che sono strutture estremamente complesse”, e che al momento sono utili, se non a salvare una vita, almeno a predire con precisione gli effetti dei farmaci sull'essere umano. Ma anche in clinica arrivano le prime applicazioni: a Firenze proprio qualche mese fa è stato ricostruito da zero, proprio con la stampa tridimensionale, l'orecchio di un ragazzo a partire da una piccola porzione di cartilagini costali.
Inchiostro a base di cellule
Depositare le cellule sullo scaffold è però solo una delle possibili strategie per la stampa di organi. Non priva di inconvenienti, per altro: primo fra tutti il fatto che non è semplice inserire perfettamente le cellule all'interno della matrice a loro destinata, con il rischio di una distribuzione non omogenea del materiale organico. Per ovviare a questi inconvenienti si sta sperimentando una metodologia più avanzata, la biostampa o bioprinting, incorporando le cellule all’interno del materiale stesso dell’impalcatura così che vengano depositate insieme allo scaffold e non seminate in un secondo momento. In questo caso si utilizza un bioink, un materiale semiliquido che contiene per esempio cellule epatiche di un paziente, opportunamente amplificate e stabilizzate. Questo viene depositato da una apposita biostampante su un materiale di supporto (biopaper) per riprodurre la struttura tridimensionale dell'organo di riferimento (in questo caso il fegato). Ma anche qui gli ostacoli non mancano: il lasso di tempo durante il quale le cellule possono essere stampate senza essere danneggiate è molto breve, e il bioinchiostro deve essere composto di materiali cell-friendly per evitare che muoiano durante la stampa. Per questo, nei laboratori si lavora per mettere a punto bioinchiostri, per esempio a base di collagene o acido ialuronico, che consentano di mantenere il più possibile intatte le proprietà delle cellule, e biostampanti più veloci per salvaguardare le funzionalità del materiale organico.
Dallo Spazio alla Terra
Paradossalmente, però, non è sulla terra che si registrano i principali successi. Il vero banco di prova della biostampa è infatti a 400 chilometri di altitudine, nei laboratori della Stazione Spaziale Internazionale. Qui, per esempio, è stato condotto con successo il primo tentativo di stampa di tessuti molli. Il campione, di cellule cardiache umane, ha per altro dimensioni ragguardevoli rispetto agli standard terrestri: 30 mm di lunghezza per 20 mm di larghezza e 12,6 mm di altezza. Nello spazio, infatti, è possibile bypassare tutti i problemi generati dalla forza di gravità sulla terra, dove i bioinchiostri devono essere miscelati con agenti addensanti o con i materiali che costituiranno l'impalcatura, per non collassare sotto il loro stesso peso. Nel caso dei tessuti molli, come muscoli o o vasi sanguigni, questo rappresenta un ostacolo non indifferente. L'esperimento portato avanti dalla 3D Biofabrication Facility sulla ISS ha invece consentito di produrre un tessuto “autoportante” che si è mantenuto “in forma” anche una volta rientrato a terra all'interno di una capsula SpaceX. I russi, dal canto loro, hanno sfruttato le condizioni di microgravità della ISS per stampare in 3D del tessuto osseo, che potrebbe servire come “ricambio” per i cosmonauti nelle spedizioni di lunga durata.
Tuttavia, è sulla Terra che si attendono i benefici del bioprinting. “Il nostro sogno – conclude Moroni - sarebbe creare un rene o un pancreas biostampato riducendo i tempi di attesa dell’organo e, nel caso venisse fatto con le cellule del paziente, risolvendo i problemi del rigetto. Ma realisticamente non credo che ci riusciremo prima di venti o trent’anni. Soprattutto, il successo di questa tecnica dipenderà dagli investimenti che si vorranno fare in questo settore”.