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Talassemia, previsto un aumento dei casi nei prossimi anni

Talassemia, previsto un aumento dei casi nei prossimi anni
Dal Congresso della Società italiana di ematologia, Gian Luca Forni, direttore di Ematologia del Centro della Microcitemia e delle Anemie Congenite Ospedali Galliera di Genova, fa il punto sulla patologia e sulle cure farmacologiche
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L’Italia è uno dei paesi al mondo più colpiti della talassemia: sono sette mila i pazienti con questa malattia del sangue causata da un difetto ereditario dell’emoglobina, la proteina che trasporta l’ossigeno in tutto l’organismo. Un tempo presente soprattutto nelle isole, nelle regioni del Sud e nell’area del delta del Po, oggi la talassemia si riscontra in modo uniforme in tutta la penisola e si prevede un aumento dei nuovi casi nei prossimi anni. A dirlo è  Gian Luca Forni, direttore di Ematologia del Centro della Microcitemia e delle Anemie Congenite Ospedali Galliera di Genova e Past-President della Società Italiana Talassemie ed Emoglobinopatie (SITE), che dal Congresso della Società Italiana di Ematologia ha fatto il punto sull’assistenza e sulle cure farmacologiche per questa malattia genetica.


Prof. Forni, com’è cambiata l’aspettativa di vita negli ultimi decenni?
“Fino agli anni Sessanta, i pazienti affetti da beta-talassemia major non sopravvivevano oltre i 10/15 anni, oggi grazie alla combinazione della terapia trasfusionale e ferrochelante, la loro aspettativa di vita non ha più limiti, si parla infatti di “prognosi aperta”. Rispetto al passato le prospettive, quindi, sono molto cambiate. Da un lato, le trasfusioni regolari di sangue rappresentano un rimedio contro l’eritropoiesi inefficace del midollo, cioè contro la mancata o insufficiente produzione di globuli rossi che è la causa della grave anemia. Dall’altro, le trasfusioni determinano un accumulo di ferro, che l’organismo dei pazienti non è in grado di eliminare in modo naturale e che può causare, ad esempio, insufficienza cardiaca, fibrosi o cirrosi epatica, diabete, ipogonadismo, ipoparatiroidismo o ipotiroidismo. Tutti problemi multiorgano che derivano dal sovraccarico di ferro, che richiede un trattamento ferrochelante”.
 
Che impatto ha sulla vita dei pazienti la necessità di continue trasfusioni di sangue?
“Il sangue è un vero salvavita, ma con conseguenze rilevanti. La terapia trasfusionale è effettuata, in media, a intervalli di 2-3 settimane e ogni seduta in ospedale dura fino a 5 ore. Il peso della malattia sulla quotidianità dei pazienti è davvero importante. Si stima che queste persone trascorrano, in media, più di 30 giorni all’anno in ospedale per le trasfusioni e gli esami di controllo. È tempo sottratto alla famiglia, allo studio, al lavoro, al tempo libero e alle vacanze. La loro vita, di fatto, ruota intorno al centro specialistico”.


Quali sono i progressi nel trattamento?
“Sebbene il trapianto di midollo offra una possibilità definitiva di guarigione, è difficile trovare un donatore compatibile. Questo rende fondamentale lo sviluppo di nuovi trattamenti. Un nuovo farmaco, luspatercept, il primo di una nuova classe terapeutica che promuove la maturazione eritroide approvato in Europa. Agisce riducendo l’eritropoiesi inefficace, responsabile della grave anemia, consentendo così la produzione di globuli rossi maturi. È la prima volta che assistiamo a un passo avanti così importante. Stimolando la produzione di emoglobina, il farmaco può infatti ridurre, e in alcuni casi eliminare, la necessità per i pazienti di una regolare terapia trasfusionale. Meno trasfusioni significano più libertà e normalità. L’aumento dei valori di emoglobina si traduce anche in un miglioramento dell’ossigenazione periferica, con benefici evidenti nello svolgimento delle attività fisiche quotidiane. Non solo, la riduzione del fabbisogno trasfusionale permette anche di limitare le possibili complicanze legate al sovraccarico di ferro ed anche di ridurre od eliminare la necessità della quotidiana terapia di ferrochelazione”.

Quanto conta un approccio multidisciplinare?
“I centri dedicati diffusi sul territorio permettono ai pazienti di essere seguiti sia da ematologi, pediatri internisti che da specialisti di altre discipline - cardiologi, epatologi, endocrinologi, ginecologi, nefrologi, etc. - in grado di tenere sotto controllo il loro stato di salute complessivo. L’Italia è un paese all’avanguardia nella cura grazie ad una rete di centri che però, negli ultimi anni, stanno soffrendo di notevoli criticità organizzative che mettono a rischio la loro esistenza. Nel 2017, tramite un apposito dispositivo di legge, è stata istituita la Rete Italiana della Talassemia e delle Emoglobinopatie. A questa, però, non è ancora seguito il decreto attuativo che dovrebbe mettere in sicurezza la Rete, consentendole di continuare l’opera svolta in questi anni di diagnosi e cura ed anche di formazione e prevenzione, possibile in fase prenatale attraverso screening semplici ed economici. Oggi non è infrequente che coppie portatrici della mutazione genetica, correttamente informate dagli specialisti dei Centri, decidano di portare a termine la gravidanza pur sapendo che il feto è affetto dalla malattia, perché la prognosi della patologia è aperta e la ricerca sulle nuove terapie fa ulteriormente ben sperare per il futuro”.
 

Quali sono i principali sintomi di questa malattia del sangue?
“I sintomi della beta-talassemia major compaiono già nei primi mesi di vita e, se non si interviene con adeguate terapie, le conseguenze sono grave anemia, deformazioni ossee, ingrossamento di milza e fegato, problemi di crescita, complicazioni epatiche, endocrine, ad esempio ipotiroidismo e ipogonadismo, e cardiovascolari”.