Una cura sempre più personalizzata ha bisogno di farmaci specifici e di test in grado di capire quale terapia sia la più indicata. Per esempio, fra le pazienti con tumore HER2 positivo in stadio precoce che siano state sottoposte a terapia prima dell'intervento chirurgico è oggi possibile individuare quelle che sono a maggior rischio di ricadute e indirizzarle quindi verso una terapia più efficace, trastuzumab emtansine (TDM-1).
Come? Grazie a un esame condotto dall'anatomopatologo, la valutazione della risposta patologica completa (pCR). Un nuovo punto di svolta nel percorso di queste paziente che deve essere gestito nell'ambito dell'equipe interdisciplinare che la segue, di cui l'anatomo-patologo è uno dei cardini. Come spiega Caterina Marchiò, Professoressa Associata in Anatomia Patologica FPO-IRCCS Candiolo, Dipartimento di Scienze Mediche dell'Università degli Studi di Torino.
"L'anatomopatologo ha un ruolo importante in due momenti essenziali del percorso diagnostico-terapeutico: in fase di diagnosi, per sapere di fronte a quale tipo di carcinoma mammario ci troviamo, e dopo la terapia neoadiuvante, per comprendere se la malattia ha risposto o meno alla cura a bersaglio molecolare somministrata. Prima dell'intervento chirurgico analizziamo dal punto di vista istologico le biopsie, mentre dopo abbiamo a disposizione tutto il tessuto asportato dal chirurgo".
Cos'è la risposta patologica completa (pCR) e quanto è importante riconoscerla in modo corretto?
"Quando analizziamo il tessuto prelevato durante l'intervento ci possiamo trovare di fronte a tre possibilità. Nella prima - che auspichiamo - tutte le cellule tumorali sono scomparse e quello che vediamo è il cosiddetto letto tumorale vuoto, formato solo da tessuto fibroso, che è come una sorta di cicatrice: vuol dire che il tumore ha risposto in modo ottimale alla terapia neoadiuvante. Questa situazione viene chiamata Risposta Patologica Completa e significa che non c'è malattia residua. Come si può immaginare, dobbiamo essere certi che non sia rimasta neanche una singola cellula tumorale, perché il percorso futuro della paziente dipende dal risultato della nostra analisi. La seconda possibilità è che il tumore non abbia risposto affatto alla terapia: è ancora presente e non si è ridotto in modo significativo. Questo vuol dire che la malattia è verosimilmente resistente ab initio ai farmaci che sono stati somministrati in fase neoadiuvante e che d'ora in poi dovrà proseguire con farmaci diversi. La terza possibilità è la via di mezzo: c'è ancora malattia residua, ma il tumore ha, in parte, risposto alla cura. Anche in questo caso il percorso di cura proseguirà con farmaci diversi rispetto a quelli utilizzati in fase neoadiuvante".
In questa situazione intermedia, qual è il vostro compito?
"Dobbiamo comunicare all'oncologo quanto la malattia ha risposto. In gergo medico, diciamo che si deve 'gradare' la risposta: fa la differenza sapere se il tumore residuo è ancora molto o se è minimo. A volte ci troviamo di fronte a un tumore che non ha proprio reagito, mentre altri casi si avvicinano alla risposta patologica completa e la prognosi è molto più favorevole. Sono informazioni essenziali per l'oncologo, per stabilire la migliore strategia terapeutica per quella paziente. Nei casi in cui il tumore sia ancora presente, diventa anche fondamentale analizzare i margini di resezione, per assicurare al chirurgo che non vi siano cellule cancerose. In caso contrario, è necessario ampliare i margini".
Quanto conta la multidisciplinarietà?
"È imprescindibile. Il nostro lavoro non ci sarebbe senza quello degli altri colleghi e viceversa. È vero che la paziente vede sempre soltanto l'oncologo o il chirurgo: il nostro è un lavoro dietro le quinte, che però ha delle implicazioni davvero importanti, perché permette di stabilire cosa fare per trattare al meglio la paziente".