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Addio Annarita Sidoti, la marcia piange la sua campionessa

Stefano Tamburini
2 minuti di lettura
Annarita Sidoti 

Piangeva e rideva al tempo stesso, con il cuore gonfio di gioia e d’orgoglio, quando spuntò in fondo al televisore per prendersi una medaglia d’oro marciando così veloce e in bello stile che quasi sembrava volasse. Era il primo titolo d’Europa per Annarita Sidoti: aveva 21 anni, e quel giorno a Spalato (1990) avrebbe dovuto essere solo una riserva azzurra nei 10 chilometri di marcia. Solo che una compagna che non stava troppo bene le lasciò il posto e lei andò a vincere mentre i tecnici azzurri e gli altri atleti quasi non ci credevano. Piangeva e rideva anche mentre festeggiava e, dopo, raccontò a tutti che non ci credeva neanche lei. Poi, ricacciando indietro le lacrime, confidò il suo pensiero degli ultimi chilometri: «Non mi faccio prendere più, neanche se dovessi morire».

Fa venire i brividi e stringere il cuore rivederlo adesso quel filmato che si chiude proprio con questa frase, ora che Annarita Sidoti se n’è andata, a 45 anni, con tre figli da crescere e tantissime cose da fare. Ha provato a non farsi riprendere dal cancro, che l’ha inseguita per sei lunghi anni prima di averla vinta. E anche in questo c’è il significato di una tenacia che spesso la si trova più facilmente negli atleti che prima di essere grandi in pista, in campo, in piscina o in pedana lo sono ancor di più fuori.

Annarita era una piccola grande donna: 40 chili scarsi, un metro e mezzo scarso d’altezza e un’immensa statura. Nell’atletica italiana seconda solo a quella di Sara Simeoni. Dopo il primo soprendente titolo europeo del 1990 ne aveva vinto un altro, otto anni dopo a Budapest, con il grande intermezzo di un Mondiale ad Atene nel 1997. Dieci chilometri marciando al ritmo di quattro minuti e 17 secondi al chilometro, roba che un buon amatore non riesce a fare neanche correndo, sempre in testa, sicura di se stessa e di quel che stava facendo. In mezzo dieci titoli italiani, tre Olimpiadi, un argento europeo e tante altre gioie sportive.

Veniva da Gioiosa Marea, in provincia di Messina, dove ieri si è arresa a un avversario purtroppo imbattibile, un tumore al cervello. Tutta la sua esistenza è stata, e ancora lo è, uno spot al coraggio e alla volontà. Era veramente uno di quegli atleti che, come sosteneva Muhammad Alì, non si costruiscono in palestra ma da qualcosa che hanno nel profondo. Abile e volenterosa, certo, ma la seconda qualità contava di più, molto di più. E non aveva smesso di essere così una volta abbandonato l’agonismo. Era stata assessore allo sport del suo Comune e aveva recitato nel film “Le complici” di Emanuela Piovano. Il resto era stato tutto all’insegna dell’impegno sociale, con la stessa tenacia che aveva in pista e sulle strade.

Val la pena andarsele a riguardare le sue gare, almeno i finali e i suoi pianti del dopo: esprimono gioia pura, in quegli sguardi felici si coglie il sacrificio che sboccia nel trionfo. Che poi sarebbe l’essenza dello sport pulito. Certo, vince uno solo ma i successi di Annarita finiscono per essere anche di tutti quelli che ci hanno provato dando tutto.

Quel giorno a Spalato, l’aveva detto: «Non mi faccio prendere più, neanche se dovessi morire». Ed è andata proprio così: è morta lasciandoci l’esempio di quelle migliaia di passi messi in fila inseguendo un sogno, la lealtà della sfida prima di tutto a se stessi e poi agli altri. Che la terra le sia lieve.

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