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Camara, dall’inferno a Mantova per tornare a vivere grazie al pallone

Il difensore biancorosso: «Fuggito dalla Guinea, papà è morto. Io vivo dopo il naufragio del gommone»

di Massimo Biribanti
3 minuti di lettura

MANTOVA. Le parole - agghiaccianti - scandite in francese, con sguardo fermo e gli occhi che soltanto a tratti tradiscono emozione. Poi larghi sorrisi e la speranza di prendersi sul campo di calcio la rivincita su una vita iniziata in modo terribile. Nel mezzo, la storia di Mohamed Youssouf Camara, 19enne difensore della Guinea appena tesserato dal Mantova, che domenica potrebbe schierarlo titolare nella trasferta di Noale. Una storia da richiedente asilo vivo per miracolo, che ha assistito a morti, torture e ingiustizie per venire a cercare dall’altra parte del mondo ciò che nel suo Paese è impensabile: vivere tranquillamente e inseguire i propri sogni.

Camara mentre si allena in palestra al Martelli 

La fuga dalla Guinea. Si parte dall’inizio, dal perché a 19 anni Youssouf è scappato dalla Guinea. «Perché lì è molto pericoloso vivere. Ci sono continui attacchi, soprattutto notturni, non si è sicuri neppure nella propria casa. Sono scontri etnici, una specie di piccola guerra civile». Qualcosa che ha segnato profondamente la vita di questo ragazzo. «Mio padre è stato ucciso. A casa sono rimasti mio nonno, mia madre e il mio fratellino». E qui la voce s’incrina e gli occhi Si inumidiscono. Poi lo sguardo di Youssouf torna fiero.

Il viaggio infinito. Raccontare un mese di vita e oltre seimila chilometri percorsi prima di affidarsi alle onde del Mediterraneo non è semplice: «Sono partito con una macchina dalla mia città, Conakry, e sono andato verso il Mali. Da lì ho proseguito attraversando il Burkina e il Niger, fino ad arrivare in Libia. E lì ho cercato un imbarco per l’Italia. No, non è stato facile, ho vissuto momenti brutti, ho rischiato anche la vita. Sono stato una settimana senza mangiare, nel deserto sono rimasto anche senza bere. I militari mi hanno puntato un fucile contro...». Basta così, certe pause vanno rispettate.

La morte in faccia. Il peggio per l’allora appena 18enne ragazzo della Guinea doveva però ancora arrivare. «Sono partito dalla mia città il 19 settembre del 2016 e sono arrivato in Italia il 24 ottobre», racconta. E gli ultimi giorni di questo incredibile viaggio non li scorderà mai. «Siamo saliti su una barca in tanti, eravamo circa 150. Quando eravamo in alto mare, nel mare della Tunisia, in piena notte è successo di tutto. I militari libici sono saliti a bordo, ci hanno picchiato, minacciato con le armi... La barca è affondata, ci sono stati tanti morti, ma non so quanti. Non si vedeva niente, era buio. Sono rimasto in mare tre ore, poi finalmente mi hanno salvato. Era una nave di una Ong, ma non so quale».

Il naufragio. Dai resoconti dell’epoca la nave dovrebbe essere la Sea Watch 2 di una Ong tedesca. L’equipaggio testimoniò di aver soccorso in acque internazionali un gommone con 150 migranti a bordo partito da Sabratha. Mentre iniziavano le operazioni di soccorso, una motovedetta libica era giunta sul posto e, nel tentativo di rimandare indietro il gommone, i militari vi erano saliti picchiando con bastoni i migranti. Non solo: speronato dalla motovedetta libica, il gommone era affondato. Il bilancio parla di 4 cadaveri e fra i 15 e i 25 dispersi: 120 i migranti tratti in salvo. E fra questi Youssouf.

Camara con il suo professore d’italiano in Piemonte 


Salvo in Italia. «La nave della Ong ci ha portato a Siracusa - racconta ancora Camara -, dove siamo stati registrati. Da lì sono stato mandato in un centro a Settimo Torinese, quindi ho fatto richiesta d’asilo alla Questura di Cuneo. Poi mi hanno mandato in un hotel ad Alba e da lì per 8 mesi in un centro di accoglienza ad Alessandria».

Il nome perduto. In tutta questa trafila burocratica, Camara ha perso anche il suo vero nome: «In realtà io mi chiamo Youssouf con due “s”, ma a Cuneo hanno scritto Yousouf e adesso ho tutti i documenti così. Pazienza». Dopo tutto ciò che ha passato, è davvero il minore dei mali.

Finalmente calcio. In Italia Camara ha ritrovato anche il suo grande amore, il calcio: «In Guinea giocavo in un piccolo club. Quando ero in Piemonte facevo 11 chilometri al mattino per andare ad allenarmi, perché lì dov’ero non c’era un campo. Poi ho sentito al telefono l’agente di Diawara (centrocampista del Napoli, ndr) che conoscevo e gli ho spiegato che ero in Italia. Lui ha mandato allora un suo collaboratore senegalese a vedermi giocare nella Coppa d’Africa per rifugiati che c’è stata a Torino. Io giocavo per la Guinea, mi ha visto e mi ha portato a provare per il Legnago, la Primavera della Spal, il Castelvetro e il San Marino. Ma non avevo ancora i documenti a posto, per cui nessuno avrebbe potuto tesserarmi».

L’abbraccio di Mantova. Dopo tanto peregrinare, un addetto ai lavori (Giacomarro) che aveva visto giocare Camara, lo segnala all’Acm. «Così ho conosciuto Nicola Penta - sorride Camara - e adesso tutte le carte per il tesseramento sono a posto. Mi sono trovato subito bene a Mantova, i compagni mi hanno accolto al meglio. Ora vivo a “Casa Mantova”, a Levata, e da un mese mi sto allenando al massimo».

Verso il debutto. Tanto che domenica a Noale, salvo sorprese, Youssouf farà il suo esordio in campionato: «Se l’allenatore vorrà io sono pronto, spero di fare bene e che la squadra torni alla vittoria».

Obiettivo serie C. Una vittoria che rilanci le ambizioni biancorosse: «So di giocare in un grande club, che lo scorso anno era in serie C e che deve mirare a tornare subito in quella categoria, per poi magari andare ancora più su. Possiamo farcela: siamo una buona squadra con un buon allenatore e un tifo che mi ricorda la Guinea: tanta gente allo stadio e tanto entusiasmo».

Il sogno. Un piccolo sogno, dunque, Camara l’ha già realizzato. Ma nel cassetto ne ha uno molto più grande: «Sarebbe il massimo seguire le orme di Diawara, che fra l’altro conosco personalmente. Lui in Italia è partito dal San Marino e ora è in Champions League». E a 19 anni, dopo aver inseguito un pallone per 6mila chilometri rischiando la vita, è più che lecito sognarlo.
 

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