MANTOVA. «Alla Juve ci andrà lei». Da una località di mare Roberto Boninsegna risponde così, nell'estate del 1976, al presidente dell'Inter Fraizzoli, che gli annuncia il trasferimento in bianconero dopo sette stagioni e 171 gol con la Beneamata. «Poi sono stati in verità tre anni splendidi, proprio con quella maglia che avevo sempre odiato. Sotto la Mole conquistai due scudetti e la Coppa Uefa, il primo trofeo internazionale vinto dalla Juventus, allora composta di soli giocatori italiani. E un lunedì mattina alle 7 mi telefonò a casa l'avvocato Agnelli. Il giorno prima mi avevano azzoppato, non mi tenevo nemmeno in piedi. Mi chiese come stessi e di rimettermi in fretta, perché la Juve aveva bisogno di me. Inutile dire che la domenica seguente ero regolarmente in campo».
Sono solo alcune delle rasoiate del Bobo, stuzzicato dal direttore Paolo Boldrini e captate qua e là durante l'incontro del 4 dicembre con i lettori in Gazzetta: per raccontarle tutte non basterebbero due pagine del quotidiano. Quel cognome così particolare lo identifica come il mantovano più popolare in assoluto nel pianeta del calcio, non solo nazionale. A 75 anni esibisce un'invidiabile freschezza nel ricordare i dettagli di una vita spesa inseguendo un pallone e al solito non ha peli sulla lingua.
Qualche esempio? «Se ho un rimpianto è quello di non aver mai giocato nel Mantova, di cui sono tifoso, come dell'Inter. Incontrai Romano Freddi a fine carriera, andai a casa sua e parlammo di tutto tranne che del mio passaggio all'Acm. Il giorno dopo raccontò alla Gazzetta che la trattativa non era andata in porto perché non gli avevo chiesto esplicitamente di giocare in biancorosso. Tre mesi più tardi passai al Viadana, era l'autunno del 1980. Da allenatore mi sarebbe piaciuto guidare l'Under 21 ma dopo aver smesso da calciatore ero saturo e mi presi una vacanza lunga nove anni. Da selezionatore azzurro di C ho comunque lanciato tra gli altri Zambrotta, Di Biagio, Toni, Iaquinta, futuri campioni del mondo nel 2006».
Accenna con orgoglio ai sacrifici compiuti in gioventù: «Mio papà morì di cancro a 60 anni. Alla cartiera Burgo faceva il saldatore, a casa portava mezzo litro di latte e il fazzoletto verde che avrebbe dovuto proteggerlo dalle esalazioni. Faceva gli straordinari ma i soldi non bastavano mai. Era sindacalista e comunista, non mi impediva però di andare a messa in Sant'Egidio o all'oratorio. Quando i lavoratori della Burgo sono scesi in piazza nel tentativo di garantirsi un futuro mi sono sentito di andare con loro, perché possano credere in un futuro migliore. Mia mamma invece faceva la magliaia e mi confezionò una maglia nerazzurra con cui scorrazzavo da piccolo all'oratorio. Da tifosa del Mantova andò allo stadio sino a poco prima del parto». Il Bobo ammette che un calciatore non è mai pronto ad uscire di scena: «Il profumo che si respira in un campo di calcio è impagabile. Ogni tanto riaffiora nei miei sensi quello dell'erba di San Siro e riesco ancora ad emozionarmi».
Gian Paolo Grossi