Sanno tutto di noi, numero di cellulare in primis. Chiamano a ogni ora della settimana, giorno e notte, festivi compresi. A volte si arrendono al primo “no”. A volte insistono a martellare di telefonate lo stesso malcapitato. Chiamandolo anche 155 volte in un mese come è emerso in un’inchiesta del garante della privacy. Offrono un nuovo contratto per la luce, un cambio di fornitore di gas, una sottoscrizione “da sogno” con un nuovo operatore telefonico al posto del nostro abbonamento che (loro lo sanno già) ci sta per scadere.
Benvenuti nel mondo a due volti del telemarketing. C’è quello delle aziende serie che danno lavoro, con regolare contratto a 15-20mila dipendenti, tenute ad attenersi a leggi e contratti di autoregolamentazione per rispettare la privacy dei consumatori. Ma a fianco dei call center ufficiali si è formata un’area grigia in cui le regole non esistono e “di cui è difficile capire le dimensioni anche se di sicuro non è piccola”, come spiega Riccardo Saccone, segretario nazionale della Slc-Cgil. E’ il cosiddetto universo dei “sottoscalisti” e dei “cantinari”. Piccole strutture che nascono magari sotto l’insegna di “Centro di formazione”, senza diritti per i dipendenti. Metterle insieme – bastano centralino e computer in leasing – costa poco. Molte stanno nei retrobottega di grandi fornitori di servizi e vivono solamente il tempo di un contratto.
L’epicentro del fenomeno del telemarketing aggressivo, quello ha trasformato ogni squillo di telefono in molte case italiane in un potenziale incubo, è qui: in questi centralini semi-clandestini si lavora quasi sempre con numeri ottenuti illegalmente e ignorando i diritti di chi ha chiesto il blocco alle tele promozioni. “Gli operatori di queste realtà guadagnano spesso solo quando vendono o portano a casa risultati” dice Saccone. E quindi per loro l’unica cosa che conta è far firmare un’utenza o aggiungere dati da un indirizzario che poi verrà venduto a cifre più alte. Anche a costo di tempestare di telefonate un utente o a strappare un contratto in modo ingannevole alle persone più fragili.
Questo mondo opaco – come dimostrano le inchieste sul settore - fa comodo a tutti. Ci sono le grandi aziende distratte (alcune anche a partecipazione pubblica) che subiscono furti di dati e allo stesso tempo chiudono tutti e due gli occhi sui call center esterni ai quali si appoggiano. C’è una giungla di appalti e subappalti al ribasso gestita da quegli stessi agenti esterni che gestiscono le strutture al limite dove si chiedono solo risultati non importa i metodi adottati. Il Garante ha sanzionato con multe da decine di milioni di euro tanti operatori - da Tim a Enel, da Vodafone a Iliad, da Eni a Wind – ma i cartellini rossi non sono bastati ad arginare il fenomeno. Anzi. L’autorità ha sottolineato nelle sue ultime sentenze il dramma della “recidiva” cioè di aziende multate più volte a distanza di tempo per le stesse violazioni alla privacy e ai diritti dei consumatori. E i nostri cellulari, complici i ritardi della politica – non hanno nemmeno lo scudo del registro delle opposizioni che – in teoria – dovrebbe proteggerlo dalle promozioni aggressive. Ecco allora come (non) funziona il magico mondo del telemarketing italiano.
LE DIMENSIONI DEL FENOMENO
“Gli abusi nel telemarketing hanno una lunga storia. Già nel 2018 ci sono stati due interventi normativi del parlamento”, racconta Riccardo Acciai, direttore del dipartimento reti telematiche e marketing del Garante della privacy, diretto da Pasquale Stazione. “E selvaggio è ormai l’aggettivo più corretto da usare”.
Quanto è esteso fenomeno? L’ente che per otto anni è stato guidato da Antonello Soro, ha quattromila fascicoli aperti dei quali il 41 per cento sono relativi alle chiamate indiscriminate. Di queste, la metà sono legate ad aziende di telecomunicazione e l’otto per cento ai fornitori di luci e gas. I tecnici del Garante valutano siano solo la punta dell’iceberg sotto cui si nascondono in realtà milioni di casi. L’autorità, infatti, si muove solo sulle segnalazioni che arrivano da cittadini. E molti italiani non sanno nemmeno di questa possibilità e chi decide di scrivere al Garante, di solito, lo fa solo quando è davvero esasperato.
“Il telemarketing continua a costituire il nostro carico di lavoro più rilevante” ammette l’ultima relazione annuale dei custodi della nostra privacy. Nel 2019 sul tavolo degli ispettori sono arrivate 3.762 reclami, più di dieci al giorno. E purtroppo – ammette il Garante “non si sono registrati segnali tangibili di flessione malgrado gli interventi e i conseguenti provvedimenti di varia natura (inibitori, prescrittivi e sanzionatori) già adottati”. Dall’analisi delle segnalazioni pervenute risulta che le telefonate indesiderate continuano ad interessare sia gli abbonati iscritti nel Registro pubblico delle opposizioni – “circostanza dalla quale si devono quindi desumere comportamenti poco virtuosi da parte dei soggetti operanti nella filiera del telemarketing, del committente della campagna e dell’operatore che materialmente effettua la chiamata” –, sia i titolari di numerazioni, sempre più spesso, mobili non pubblicate su elenchi telefonici e quindi riservate. Compagnie telefoniche ed energetiche sono l’oggetto di gran parte delle segnalazioni. Ma quelle più aggressive – specie negli ultimi tempi - “vengono lamentate rispetto a chiamate promozionali nel settore finanziario e valutario”. Specie per il trading online.
L’elenco dei reclami riguarda per lo più l’ossessività ripetitiva delle chiamate, le telefonate dall’estero o con numero schermato, la scoperta di aver sottoscritto contratti per cui non si era mai dato l’ok, la violazione al diritto di opposizione. E “la dimensione assunta dal fenomeno del marketing selvaggio e la sua persistenza in termini sostanzialmente immutati – ammette l’autorità - ci ha indotto ad inviare un corposo ed articolato appunto alla Procura della Repubblica”. Una scelta che si p resa necessaria “dall’aver riscontrato i limiti dei poteri di “indagine” del Garante”, soprattutto con riferimento a società che nascono anche solo per una campagna promozionale e fanno rapidamente perdere ogni traccia, oppure sono localizzate in Paesi extra-UE.
UN FAR WEST IN MANO AGLI AGENTI
“Guardi, le stiamo facendo un favore: noi l’energia elettrica la vendiamo all’ingrosso. Non è nemmeno un’offerta, ma molto di più”. L’operatrice dall’altra parte del telefono sfoggia il piglio sicuro di chi la sa lunga. E’ una costante: chi chiama per proporre un nuovo contratto per la fornitura di luce, gas o una sottoscrizione con un operatore telefonico, in genere fa sempre così. Hanno il numero di cellulare, l’indirizzo, l’età, a volte perfino il codice fiscale. “La chiamo da parte di Green Network. Lo conosce? Siamo noi a fornire l’energia a tutti gli altri”, insiste l’operatrice. Ognuna ha il suo stile, la sua versione della realtà e il suo contratto da proporre C’è chi chiama sostenendo di lavorare per i Produttori Locali Territoriali (Plt), chi per Vodafone, chi per Enel, chi per conto di fantomatiche compagnie di trading online, chi addirittura per l’Arera, l’Autorità di regolazione per energia reti e ambiente. “Le leggo il contratto e in un momento abbiamo fatto”, aggiunge una delle tante voci, nessuna delle quali lavora in realtà per le aziende che promuovono. Non c’è verso di farsi mandare la proposta per iscritto e quando si domanda da dove vengono tutte quelle informazioni che posseggono sul nostro conto, la linea fatalmente cade.
Da dove nascono queste chiamate cui ormai ci siamo abituati un po’ tutti? L’anello debole della filiera del telemarketing - quello dove una normale attività di telepromozione diventa una pioggia di telefonate gestite con aggressività - è quello degli agenti. Stando alle ispezioni ordinate dagli ispettori del Garante della privacy è a loro che viene affidato il lavoro “sporco” di procacciare contratti. E loro lo fanno sfruttando lo schermo di una lunga catena di appalti e subappalti che allontanano il controllo del committente della campagna.
Questi agenti operano e gestiscono call center a volte del tutto fuori dalla legalità. In una delle indagini, quella relativa a Wind, i tecnici del Garante hanno trovato una struttura abusiva dove si lavorava su tabulati di dati probabilmente trafugati da Tim. Ed era completamente in nero, operava sotto l’ombrello del centro di formazione. Capita anche che un call center che operi per conto di una certa compagnia poi inizi a lavorare per un’ultra usando le informazioni della prima.
Gli agenti esterni, che formalmente non hanno alcun rapporto diretto con il primo committente della campagna promozionale, non si fanno scrupoli sui metodi. Rischiano grosso, almeno in teoria. Quello che operava per Wind ad esempio, lo stesso che aveva messo in piedi il call center in nero, è stato sanzionato con 300mila euro. Un’eccezione: le società nascono e muoiono con la singola commessa ed è difficile rintracciarle. “Ci sono realtà dove i contratti, scritti su carta da fornaio, si rinnovano ogni 20 giorni” dice Sacconi. E dove il rinnovo arriva solo se fai risultati, obbligandoti a fare forte pressione sui consumatori per non perdere il lavoro. “E’ successo di fare ispezioni con la Guardia di Finanza e la sirena spiegate”, ricorda Riccardo Acciai. “Sono situazioni estreme dietro le quali si potrebbe nascondere la malavita. Siamo alle ipotesi: ma è ovvio che assumono facendo leva sul disagio sociale”.
Già nel 2019 era stato evidenziato che il problema non era più il solo trattamento dei dati, ma le attività che sconfinavano nel penale con situazioni dove il confine tra vittima e colpevole è molto opaco. Da Tim, che ha ricevuto la multa più salata di tutte, sono stati trafugati i dati degli abbonati mentre allo stesso tempo metteva in pratica attività illegali nel campo del telemarketing: cattivo utilizzo del consenso, assenza di controllo sul trattamento dei dati.
Vodafone, secondo la sua stessa memoria difensiva, si rivolgeva a quattro diverse società che a loro volta avevano legami con altre aziende e call center. Sono aziende che operano alla luce del sole e che raggiungono un numero molto elevato di utenti. Una di queste quattro, la Problem Solving, ha contattato 2,972,365 persone riuscendo a far stipulare 12584 contratti. Alle sue spalle c’è la Nos s.r.l.s., 936mila utenti chiamati e seimila contratti firmati. Seguono la Seisicuro e Ids con numeri più bassi.
Il risultato dell'istruttoria del Garante ha però dimostrato che molti altri non hanno operato come avrebbero dovuto portando ad un’ondata di reclami: "un primo gruppo relativo a contatti promozionali indesiderati; un secondo per la gestione troppo disinvolta del patrimonio dei dati da parte di Vodafone stessa".
“Le segnalazioni e i reclami aumentano esponenzialmente all’aumentare della consapevolezza, da parte di coloro che effettuano i contatti promozionali, di una sostanziale impunità”, recita il provvedimento del Garante. “Impunità che, parallelamente al telemarketing selvaggio, fa aumentare in Italia anche le chiamate effettuate con intenti fraudolenti”.
VITA DA "SOTTOSCALISTI"
Come funzionano i call-center clandestini? E com’è la vita dei cosiddetti “sottoscalisti”, le persone costrette a lavorare in queste realtà che a volte nascono e muoiono nel giro di pochi mesi lasciando parcelle non pagate e contributi non versati? Michela Piccione lo sa bene, perché per due mesi ci ha lavorato: “Era il 2017 – racconta- avevo lavorato per un po’ come promoter per Bauli e Motta. Poi un giorno vedo un annuncio su Subito.it con un’offerta da 12mila euro l’anno e sono andata a fare il colloquio”. L’incontro (“20 minuti in una stanzetta di due metri per due”) va bene. Il posto – tre stanzette e un bagno con una ventina di postazioni a Taranto – è quello che è. Ma uno stipendio è uno stipendio. E quando il giorno dopo, a stretto giro di posta, Michela viene invitata a presentarsi immediatamente a lavorare, ci va.
“L’accordo prevedeva un contratto a chiamata a 6,51 euro all’ora per sei ore al giorno”, spiega e prevedeva di vendere contratti di una compagnia telefonica. Appena messo piede in sede, però, si è resa conto di essere finita in un mezzo incubo. “Eravamo senza riscaldamento a novembre e dicembre, dovevamo versare un euro per avere la carta igienica nel bagno. Se uscivi per una piccola boccata d’aria, ti toglievano i soldi dallo stipendio”. E quando a una collega è arrivata la busta paga, “dentro c’erano 92 euro invece dei 6-700 previsti, 33 centesimi all’ora”. E’ stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Michela ha fatto denuncia e la struttura è stata chiusa.
“La proliferazione di queste aree grigie nel mondo dei call center ha una spiegazione – dice Riccardo Saccone, segretario generale Slc-Cgil –. In un’Italia che si deindustrializza sono una sorta di ammortizzatore sociale. Se a 50 anni ti cacciano dal processo produttivo, il primo posto che trovi è qui”. Sono facili e poco costosi da allestire, non serve grande preparazione “anzi spesso vengono aperti sotto lo schermo di centri di formazione e chi è costretto a lavorare al di sotto delle regole non denuncia perché anche se è senza diritti è l’unico posto che ha”.
Oggi Piccione ha trovato lavoro in un call center regolare. Dove si è pagati a ora con provvigioni in caso di contratti. “Se stai al telefono dieci ore al giorno e sei un bravo venditore puoi arrivare a mille euro di stipendio e mille di bonus”. Dice. I premi, vale per tutte le aziende, sono commisurati al valore del contratto che si riesce a firmare. Ogni tipologia garantisce un punteggio che ti fa salire di fascia: su un contratto telefonico, per dire, il servizio pieno con banda larga e magari migrazione da altro operatore vale 100, una semplice linea fissa vale 45, un cliente in arrivo da un concorrente 65, un pacchetto di servizi aggiuntivi a un contratto già in essere 30.
UNO SCUDO CHE NON FUNZIONA
Il fenomeno del telemarketing aggressivo, in teoria, non dovrebbe esistere. Perché? Semplice. In Italia c’è il Registro delle opposizioni. Uno scudo stellare cui basta iscrivere il proprio numero di telefono (per ora, causa i ritardi della politica, solo quello fisso) per interrompere le chiamate sgradite. Unico problema: questa arma di difesa dei consumatori funziona solo a scartamento ridotto e – almeno fino ad oggi – è stata aggirata con relativa facilità dagli operatori, come dimostrano le carte dell’inchiesta dell’Agcom.
Iscriversi al registro delle opposizioni – www.registrodelle opposizioni.it - è semplice e gratuito: basta comunicare via web, a un numero verde (800265265), via mail o con una raccomandata il proprio numero via telefono, on line al registro delle opposizioni per renderlo inaccessibile alle promozioni. Vale al momento per il telefono fisso, e lo hanno fatto 1,55 milioni di italiani su 13 milioni di linee fisse. Il governo nel 2018 aveva approvato l’estensione ai cellulari – in Italia sono 80 milioni - ma questo processo si è arenato: a febbraio scorso era stata prevista una bozza in attesa delle linee attuative per il suo funzionamento con avvio a inizio dicembre. Ma allo stato i regolamenti non sono andati nemmeno in commissione parlamentare e quindi gli smartphone sono ancora una terra di nessuno, una prateria dove non esiste alcuna barriera contro i pirati del telemarketing.
Il problema vero però è che il muro delle opposizioni non funziona troppo nemmeno per il fisso. Tutte le società che intendono avviare una promozione telefonica devono verificare al registro quali dei numeri che intendono chiamare sono iscritti in questa lista. La “sentenza” del registro non è però scritta nella pietra e ad aprire spesso il buco che rende inutile l’iscrizione sono spesso i consumatori stessi. Come? Concedendo l’autorizzazione a essere chiamati per operazioni di telemarketing senza accorgersi. Basta un clic affrettato su un sito che vogliamo aprire senza leggere le condizioni, basta una firma su un contratto di acquisto o su una garanzia in cui in caratteri “bonsai” è esplicitamente prevista questa possibilità, basta non leggere bene le condizioni cui si comprano online biglietti, servizi e beni di consumo per disinnescare l’efficacia del registro. Anche perché questi consensi carpiti spesso non proprio in buona fede ha un suo fiorente mercato secondario in cui vengono passati da un operatore all’altro per evitare lo scudo del registro delle opposizioni.
La politica ha provato a intervenire per provare a turare questa falla: nel momento in cui si potrà iscrivere il cellulare – speriamo il prima possibile – ci si opporrà anche a tutti i consensi espressi in passato. Un condono tombale destinato a cancellare tutti i “sì” detti per errore ai professionisti del telemarketing. Sapendo ovviamente che loro si attiveranno immediatamente per riottenere il consenso subito dopo.
IL MERCATO DEI DATI
I nostri dati telefonici, in effetti, sono una merce con un valore. Ogni utenza ha un prezzo. Più è dettagliata la profilazione del suo titolare, più vale. Ma dove si trovano i dati e come è possibile comprarli? Il primo pensiero è stato quello del dark web, ma in realtà nella parte della Rete che non è indicizzata dai motori di ricerca si trova poco e quel che si c’è riguarda soprattutto utenti statunitensi. Per l’Italia la vendita avviene altrove, non sempre per via telematica e quando si usa il Web si sfruttano direttamente i principali social network per stabilire un contatto con i possibili acquirenti.
L’identikit del potenziale cliente, un classico della civiltà digitale, è quasi più importante per riuscire a fare un contratto della chiamata reale. “Il telemarketing è solo un aspetto, la raccolta dei dati a volte diventa l’obiettivo principale”, racconta Andrea Pompili, a capo dell’unità cyber security della Cy4Gate, azienda romana del gruppo Elettronica specializzata in sicurezza informatica. “Ci sono venditori che magari sono a capo di call center ma che comunque hanno come principale fonte di reddito quella che proviene dalla compravendita delle informazioni. Nel caso dell’inchiesta su Tim furono persone all’interno del gruppo a trafugarli, altre volte vengono rubati con attacchi informatici o acquistati da altri call canter”.
I dati vengono puliti, arricchiti e completati per aumentarne il valore. E questo perfezionamento viene condotto anche a forza di telefonate: “Lei è contenuto del suo contratto con Enel?”; “Come si sta trovando con Wind”? I canali di rivendita sono Facebook e WhatsApp, almeno per i venditori meno professionali. Le aziende che offrono set di dati di alto livello hanno invece una facciata molto più presentabile e non sfruttano certo i social network. Una volta stabilito il contatto, il venditore fornisce all’acquirente un primo blocco di mille utenti in modo che si possa verificare la qualità e l’accuratezza dei dati raccolti. C’è anche il mercato dell’usato, o meglio ci sono dataset di prima o di seconda mano. Alcuni call center comprano pacchetti di contatti a due soldi, un singolo nominativo costa pochi centesimi, che però poi viene arricchito di dettagli.
“Il numero telefonico da solo vale poco, vale molto di più se associato ad una utenza con la sua data di scadenza e magari con le informazioni legate alle offerte sottoscritte in precedenza”, racconta Andrea Pompili. “Quelli sono i dataset più pregiati, messi in piedi con decine di telefonate o con il furto di informazioni ad altre aziende che capita passi del tutto inosservato”.
Il tariffario reale in effetti varia molto a seconda del rapporto tra domanda e offerta e i prezzi testimoniano bene quanti numeri telefonici ci sono all’asta: fino a qualche anno fa – dicono gli esperti di settore – un singolo recapito senza troppi “optionals” valeva 20 centesimi, oggi siamo scesi a 9 centesimi. Cifre che crescono di un po’ ogni volta che si riesce a profilare meglio un utente fotografando età, sesso, interessi e necessità particolari. Con un tetto di 50 centesimi a numero per quelli degli alto-spendenti.
LE MULTE AI BIG DI LUCE E TLC
Gli utenti insomma, nella giostra milionaria del telemarketing aggressivo, sono quasi sempre vittime inconsapevoli, colpevoli a volte solo di regalare con troppa leggerezza dati personali a chi poi li utilizza per rivenderseli. Una responsabilità importante nelle storture del telemarketing ce l’hanno invece di sicuro le grandi aziende, alcune per assurdo anche a controllo semi-pubblico, responsabili di queste promozioni. Come testimoniano in maniera evidente le motivazioni con cui sono state sanzionate.
L’elenco non risparmia quasi nessuno dei big. A Wind è stata comminata una sanzione di 17 milioni per aver contattato clienti di un altro operatore telefonico con dati acquisiti in maniera illegittima, per telefonate arrivate malgrado revoca consenso e iscrizione registro opposizioni e per alcuni consensi dati in modo obbligatorio con scaricamento app. Tim si è vista presentare un conto da 27 milioni (con tanto di 20 misure prescrittive per migliorare i controlli interni) al termine di un inchiesta in cui è stato contestato tra l’altro il caso di un cliente chiamato addirittura 155 volte, l’assenza di controllo sull’operato partner commerciali, l’uso abusivo di liste di numeri di concorrenti (trattenute come operatore di rete oltre i limiti previsti) per promozioni commerciali. Violazioni ancor più gravi, sottolinea nel provvedimento il garante della privacy, perché la società “è stata, anche in tempi recenti (2016 e 2017), già destinataria di vari provvedimenti inibitori, prescrittivi e sanzionatori proprio con riguardo alla stessa tipologia di violazioni”. La “recidiva” è in effetti un fenomeno costante che vale anche per Vodafone che ha ricevuto una multa da 12 milioni. Motivo: l’utilizzo di numerazioni fittizie legate “a un sottobosco di call center abusivi, che effettuano attività di telemarketing in totale spregio delle disposizioni in materia di protezione dei dati personali” e per aver fatto campagne promozionali “con liste ricevute da altre aziende e trasferite senza il necessario consenso degli interessati”. Eni Luce e Gas è stata sanzionata per 8,5 milioni per telefonate promozionali fatte senza verificare l’iscrizione dei potenziali clienti al registro delle opposizioni e altri 3 milioni per i reclami di 7.200 persone che hanno scoperto di aver attivato un nuovo contratto con il cane a sei zampe
“Il problema è che gli appalti vengono dati con prezzi sempre più al ribasso – spiega il sindacalista Sacconi -. E alla fine per tagliare i costi si risparmia su affidabilità dei controlli e diritti dei lavoratori”. E alla fine a pagare il conto, oltre i dipendenti dei call center clandestini, sono i consumatori massacrati dalle loro telefonate. “Quando le grandi imprese hanno scoperto che le loro promozioni erano affidate a strutture inaffidabili hanno sempre rotto i contratti”, conferma Sacconi. Ma il problema di quest’area grigia non si è mai risolto e l’apertura di centralini all’estero non aiuta certo a migliorare l’affidabilità del settore. “Sono nate strutture soprattutto in Albania e Romania, spesso controllate da imprenditori italiani". In quei paesi l’utilizzo dei dati personali è molto più disinvolto e i controlli ovviamente sono molto più complessi.