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Cosa c'entra la mosca con la testa storta con il futuro dell'intelligenza artificiale

Cosa c'entra la mosca con la testa storta con il futuro dell'intelligenza artificiale
L'immagine accanto al titolo di questo articolo è ricavata dal dipinto di Frans van der Mijn "Donna in un paesaggio con mosca sulle spalle: allegoria del tatto"
9 minuti di lettura

Prosegue il ciclo di interviste a personalità legate alla tecnologia, alla scienza e al progresso che ci aiutano a capire quale futuro ci aspetta

Un giorno i robot avranno una coscienza. È un futuro intrigante, per altri inquietante, che ci fa dimenticare talvolta quanto la coscienza continui invece a rappresentare un mistero per gli stessi esseri viventi. La capacità di sentire, di provare qualcosa, non è riservata solo a organismi dotati di un sistema nervoso complesso.

Lo sostiene una nuova linea di pensiero che ha in Giorgio Vallortigara, professore di Neuroscienze e Cognizione animale dell'Università di Trento, uno dei più fervidi sostenitori. Anche gli animali con un numero esiguo di neuroni come lombrichi, api e mosche, possono avere esperienze fenomeniche. Questa tesi, supportata da studi affascinanti, ha delle implicazioni sorprendenti anche sullo sviluppo e i progressi delle intelligenze artificiali.
 

La definizione di coscienza, in ambito scientifico, è molto discussa in questo momento. Per spiegare cosa significhi "sentire qualcosa" bisogna fare un notevole passo indietro. Fino a al momento in cui, nella storia della vita sulla Terra, è comparso questo fenomeno fantastico, straordinario, chiamato coscienza fenomenica. Come è successo?

In linea di principio noi sappiamo che gli organismi - noi ma anche altri organismi - potrebbero semplicemente rispondere agli stimoli in maniera consona senza che alcunché compaia in quel che viene chiamato teatro della coscienza. Un girasole per esempio risponde agli stimoli luminosi e si orienta in relazione alla posizione del sole e della luce. Ed è molto difficile pensare che questo movimento sia accompagnato da una coscienza fenomenica. 

 

Perché allora abbiamo ragione di credere che in altri organismi sia così?

La mia idea, in buona sostanza, in realtà condivisa da molti altri studiosi, è che tutto sia iniziato nel momento in cui gli organismi hanno cominciato a muoversi nell'ambiente in maniera attiva, perché quando avviene per la prima volta ci si trova di fronte a un problema molto particolare, e cioè la necessità di distinguere due varietà della stimolazione sensoriale. Due stimolazioni che, per quanto concerne la loro azione sul recettore periferico, sulla superficie del corpo, sono indistinguibili.

 

Cosa succede, in pratica, quando un organismo 'sente' qualcosa?

Un esempio che faccio sempre è quello del lombrico. Immaginate di estrarne uno dal terreno e di stimolarlo con un dito o con un bastoncino: si osserverà che il lombrico mostra una reazione difensiva: si attorciglia, cerca di proteggersi.

È una reazione fondamentalmente anti-predatoria che non stupisce. La cosa sorprendente invece è che se adesso libero il lombrico e lo lascio muovere sul terreno, si muoverà e non mostrerà azioni difensive. Come diavolo fa ad andare avanti tranquillamente? Evidentemente perché c'è una possibilità di distinguere la stimolazione sensoriale, tra quella passiva e quella invece determinata dal movimento attivo dello stesso animale.

Questo vuol dire che  tutte le volte che un organismo compie un'azione, il segnale che viene prodotto dal sistema nervoso viene spedito, oltre che ai muscoli che attivano il movimento, anche al sistema sensoriale. Insomma esiste una copia carbone di quel segnale motorio che chiamiamo tecnicamente copia efferente o scarica corollaria, che serve in un certo senso al cervello per anticipare il tipo di stimolazione che potrà avvenire di lì a poco, come conseguenza del fatto che ti sei mosso.

Cosa ci insegnano un lombrico e Hannibal Lecter sulla coscienza delle macchine

Il titolo del suo ultimo libro, Pensieri della mosca con la testa storta (Adelphi), fa riferimento a uno degli esperimenti più affascinanti legati alla distinzione tra gli stimoli sensoriali attivi e passivi.

Sì, lo ha effettuato negli anni Cinquanta Eric von Holst, un fisiologo del comportamento che era un collaboratore di Konrad Lorenz, molto meno famoso di lui ma assolutamente geniale. Von Holst ha fatto questo esperimento utilizzando un tipo di mosca, un dittero, una mosca drone che simula nell’aspetto le sembianze di un’ape. Questa particolare specie ha un collo molto lungo e assai flessibile che consente, senza far soffrire l'animale in alcun modo, di girare completamente di 180 gradi il suo capo. La testa viene fissata al torace con una goccia di colla, temporaneamente.

Se si posiziona la mosca dentro un cilindro rotante a strisce verticali, bianche e nere, e si mette in movimento il tamburo in senso orario, immediatamente come risposta riflessa la mosca comincia a muoversi nella stessa direzione per mantenere stabile il suo mondo. Nel caso invece in cui la mosca abbia la testa storta, ovvero rovesciata di 180 gradi, per correggere il movimento la mosca anziché andare nella stessa direzione del cilindro va al contrario. E siccome andando al contrario la discrepanza che viene segnalata aumenta, l’animale riprende a girare ancora di più e quanto più gira tanto più aumenta la discrepanza: il risultato è che la povera mosca si attorciglia fino a bloccarsi completamente.

Questo semplicissimo esperimento dimostra, appunto, che gli animali producono una copia carbone del segnale motorio che viene utilizzato per predire il tipo di eventi che potrebbero accadere nell’ambiente. Come a dire che quello che sta per succedere sulla superficie del proprio corpo è il prodotto del proprio movimento.
 

Questo vale anche per gli esseri umani, ovviamente.

Certo. Prendiamo un fenomeno che conosciamo tutti: il solletico. Tutti sappiamo che funziona solo se a farlo è qualcun altro. E questo non in virtù di un qualche oscuro meccanismo psicologico legato al fatto che c'è un altro che lo fa. Il meccanismo infatti è puramente fisiologico: quando sei tu che con una mano ti tocchi sotto l'ascella, il tuo cervello riceve il segnale relativo al fatto che la tua mano si sta muovendo. C’è dunque una copia carbone del segnale motorio che va alla mano, per farla muovere, e una copia che dice al sistema sensoriale che il segnale tattile che arriverà tra poco, alla tua ascella, l’hai prodotto tu e quindi lo puoi ‘scartare’. Ecco perché non riusciamo a farci il solletico da soli, perché in questo senso il sistema è predittivo.

 

Anticipare, prevedere e reagire in base alle informazioni in proprio possesso: a pensarci bene, funzionano così anche le intelligenze artificiali. Cosa può dirci, su quest’ultime, una semplice mosca con la testa storta?

Credo che ci sia una relazione profonda e importante tra il tipo di ricerche che vengono condotte oggi nell'ambito neurobiologico, studiando organismi e meccanismi come quelli della mosca con la testa storta, e i progressi che possiamo e che potremo fare nell'ambito dell’intelligenza artificiale.

Il robot umanoide che ha stupito i social per le sue espressioni e la fluidità dei movimenti

Perché quello che emerge chiaramente è che per avere macchine che siano in grado di sentire, di provare qualche cosa, sarà necessario che queste macchine abbiano dei corpi e che si trovino a interagire nell'ambiente, muovendosi in maniera attiva. Perché quando questo accade si trovano di fronte allo stesso tipo di problema che hanno incontrato gli organismi biologici nella loro storia naturale: e cioè la necessità di distinguere tra le due varietà della stimolazione di cui stiamo parlando: quella che è prodotta da qualche cosa che c'è là fuori è quella che è prodotta dal fatto che tu stesso ti muovi in relazione al fatto che c'è qualcosa là fuori.

I  meccanismi circuitali, diciamo così, che sostengono i fenomeni di copia efferente sono molto semplici e sono già oggi riprodotti in una varietà di meccanismi e di servomeccanismi nelle macchine, nei sistemi artificiali. Abbiamo però bisogno di implementare macchine che abbiano relazioni plausibili col mondo, con corpi che agiscono attivamente nel mondo. Quando saremo capaci di fare questo, io sono convinto che avremo anche macchine in grado di sentire, di provare qualche cosa.

 

Mi viene in mente un video virale, recente, in cui un cane-robot, simile al famoso Spot di Boston Dynamics, insegue e interagisce alla perfezione con un bassotto. È questo il futuro che ci attende?

Credo che le interazioni che possiamo osservare tra le macchine che simulano per esempio un comportamento di un cane che va a interagire con un cane reale, ci suggeriscono proprio che l'efficienza massima di queste interazioni di tipo sociale, probabilmente, sarà ottenuta nel momento in cui questi intelligenze artificiali possiederanno una qualche forma di coscienza fenomenica.

La lite tra un cane-robot e un bassotto è il simbolo del futuro che ci attende

Se c'è una funzione fondamentale, nel fatto di sentire qualcosa, di provare qualche cosa, è il fatto che questo diventa un modello per come possono sentire gli altri e quindi per come possiamo immaginare gli stati mentali delle altre creature. E quando noi possiamo simulare internamente gli stati mentali delle altre creature, allora anche le interazioni sociali hanno una qualità completamente diversa perché non reagiamo semplicemente a quello che fa un'altra creatura - che sia un cane o un essere umano - ma reagiamo ritenendo che quei comportamenti siano il risultato di un’azione intenzionale: cioè che lì ci sia una mente che che prova qualche cosa e che sente qualche cosa, che per esempio sente dolore e felicità, che pensa, che crede, che desidera. A questo proposito, mi viene in mente un film: Il silenzio degli innocenti.

 

Aspetti un attimo, cosa può insegnarci Hannibal Lecter sulla coscienza delle macchine?

Proprio il personaggio di Lecter, nel film, cerca di spiegare la psicologia del criminale, dell'assassino, all’agente dell’Fbi un po’ ottusa. Lecter le dice: “Prova a pensare cos'è che vuole, che cos'è che lo caratterizza: lui pensa, lui desidera”. Quando avremo macchine che riescono a capire che altre creature desiderano, per esempio, allora avremo una buona prova del fatto che esse hanno raggiunto la coscienza.

 

Il futuro delle neuroscienze sembra essere legato alle intelligenze artificiali. Nuovi organismi programmabili si affacciano all’orizzonte. Un esperto di robotica dell'Università del Vermont ha creato “macchine biologiche” in grado, tra le altre cose, anche di riprodursi: li ha chiamati xenobot. Che cosa ne pensa?

La linea di ricerca che ha condotto ai cosiddetti xenobot, e cioè questi organismi creati in laboratorio a partire da cellule staminali, in grado poi di muoversi nell'ambiente e di realizzare una sorta di pseudo riproduzione semplicemente raggruppando altre cellule sparse dello stesso tipo, che poi formano un gruppo e poi a loro volta sono capaci di comportarsi come degli xenobot, secondo me è di un enorme interesse.

Assomigliano a Pac-Man i primi robot viventi in grado di riprodursi

Parliamo di un movimento generale che sta osservando i confini tra scienze dell'artificiale e scienze biologiche e che ha a che fare con il tema della cosiddetta minimal cognition, ovvero le condizioni minimali in cui noi possiamo immaginare la comparsa di sistemi intelligenti.

In un certo senso quello che gli xenobot ci indicano è che possiamo far nascere sistemi intelligenti in condizioni davvero minimali. Ci sono vari altri studi che vanno nella stessa direzione. Per esempio ci sono organismi che sono fatti di una sola cellula, come certi protisti che somigliano a delle sorti di muffe - per esempio ce n'è una che si chiama slime mold - e che sono capaci di risolvere dei problemi relativamente sofisticati come orientarsi in un labirinto oppure apprendere certe caratteristiche dell'ambiente. 

 

Qual è l'insegnamento più grande che possiamo trarre da queste nuove frontiere scienza biologica?

La cosa più affascinante di questa storia è che stiamo riscoprendo degli esperimenti pionieristici che risalgono all'incirca agli anni Sessanta. C'è una storia bellissima che riguarda attorno agli anni Sessanta una studiosa dimenticata ingiustamente, che si chiamava Beatrice Gelber e che per prima aveva provato a vedere se era possibile ottenere il condizionamento classico, della forma più semplice di apprendimento, nei parameci, che sono organismi unicellulari.

All'epoca gli esperimenti furono un po’ criticati e un po’ ritenuti inverosimili, ma poi come accade spesso nella storia, sono stati riscoperti e si è visto che in realtà Gelber aveva fatto un lavoro molto buono molto, ben controllato, alcuni di questi risultati sono stati ripetuti replicati e quindi stiamo cominciando a capire che in realtà i meccanismi basilari, di quella che chiamiamo cognizione, possono essere realizzati in sistemi incredibilmente semplici rispetto a quanto pensavamo fino all’altro ieri. 

 

Un altro studio recente ha osservato che un insieme di cellule del cervello umano, disposte in una piastra, se sottoposte a una determinata stimolazione possono imparare a giocare a Pong meglio di quanto farebbe l'intelligenza artificiale. I ricercatori hanno definito quelle cellule delle "cellule cyborg" che in quel momento sono convinte di essere la barra di Pong. E qualcuno ha immediatamente parlato di "effetto Matrix", in riferimento alla popolare trilogia cinematografica. In effetti le cellule vivono una neuro-simulazione indotta da altri.
Matrix è uno scenario a cui bisogna iniziare a credere sul serio?

Io credo che il tema generale della neuro-simulazione o di Matrix si ponga plausibilmente e abbia una risposta affermativa già per quello che riguarda le condizioni attuali del funzionamento del nostro sistema nervoso. L'unica differenza è che mentre nel caso di Matrix si immagina che ci sia qualcuno dall'esterno che ha creato, diciamo così, la matrice e il mondo neuro-stimolato per gli esseri umani, nel nostro caso la costruzione di Matrix è semplicemente il risultato dei processi ciechi della selezione naturale, perché fondamentalmente il nostro sistema nervoso è allo stesso tempo la nostra finestra sul mondo: tutto quello che noi possiamo sapere del mondo è il campionamento che milioni di fibre nervose fanno degli stati energetici dell’ambiente circostante. Calore, temperatura, pressione: questo è tutto quello che noi possiamo sapere del mondo e ovviamente il modo in cui lo possiamo sapere è limitato e vincolato da come siamo stati costruiti.

Noi non abbiamo accesso alla realtà ultima, quale che sia. Possiamo formulare delle ipotesi, possiamo speculare su questo, ma per quello che riguarda la nostra esperienza fenomenica del mondo, questa è davvero vincolata al modo cui sono costruiti i nostri sistemi nervosi.

Quindi mi sta dicendo che sì, in un certo senso siamo già dentro Matrix.

Per certi versi sì, dobbiamo credere che quando vedo, che so, un serpente là fuori, ci sia davvero un serpente nel senso che quella sia la realtà ultima. Il serpente che io vedo non è altro che l’icona sullo schermo del mio calcolatore mentale, quello che la selezione naturale ha messo a disposizione affinché noi potessimo in questo mondo sopravvivere e riprodurci. Ma questo è il punto: il criterio su cui opera l'evoluzione biologica è la sopravvivenza e la riproduzione, non la conoscenza ultima della realtà.

È perfettamente plausibile che la selezione naturale abbia messo a punto dei meccanismi totalmente ingannevoli per quello che riguarda la realtà ultima. Sappiamo che questo è probabile perché se guardiamo a centinaia d'anni di osservazione del comportamento animale, noi osserviamo che in molte circostanze gli animali reagiscono agli stimoli - quelli che gli etologi chiamano gli stimoli super normali - in maniera pressoché automatica e per certi aspetti anche bizzarra. Noi che guardiamo la cosa dall'esterno, diciamo “Oh ma che sciocco questo cagnolino che pensa davvero che raspando sulla moquette a casa possa coprire la cacca che ha appena fatto”. Perché fare una cosa del genere, perché ha questo comportamento automatico anche quando il cane può vedere che non è la realtà?

Altro esempio: in Australia negli ultimi anni è stato studiato un tipo di scarafaggio gioiello che ha rischiato l'estinzione perché i maschi della specie erano incredibilmente attratti da bottiglie che contengono la birra, usate in quel Paese, che hanno una speciale di zigrinatura nella parte inferiore e che le rende incredibilmente simili, nell'aspetto, alle alle femmine della specie. Questi maschi non volevano più saperne delle femmine reali e preferivano cercare di accoppiarsi con le bottiglie. Questo ci sembra molto stupido e ci fa ridere.

 

Uno scarafaggio che cerca di accoppiarsi con una bottiglia è qualcosa che fa sorridere, in effetti.

Però dobbiamo stare attenti perché noi abbiamo meccanismi di risposta automatica simili con cui campioniamo gli stati energetici del mondo. Perché pensiamo che siano più reali di quelli a cui risponde uno scarafaggio gioiello? Sono semplicemente diversi.