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Almanacco dell'Innovazione - 27 gennaio 2010

Vittorio Zucconi racconta l'ultima magia di Steve Jobs, l'iPad

Vittorio Zucconi racconta l'ultima magia di Steve Jobs, l'iPad
3 minuti di lettura

Il 27 gennaio 2010, a San Francisco, Apple svelò l’iPad e ci fu l’ultima, grande presentazione di Steve Jobs. Morirà nell’ottobre 2011 e nel frattempo salirà sul palco una manciata di altre volte.

Ma la presentazione dell’iPad è considerata epocale, come quella del MacIntosh, dell'iPod o dell’iPhone. Un momento in cui la tecnologia ha cambiato la vita delle persone. Come spesso accade, il debutto fu preceduto da un diffuso scetticismo e fu seguito da previsioni esageratamente ottimistiche (la fine dei personal computer). Tra i tanti articoli che uscirono il giorno dopo in tutto il mondo, ho ripreso quello che per Repubblica scrisse Vittorio Zucconi, che non era un tecnologoco ma aveva uno stile immaginifico inconfondibile. Come si vede anche in questa occasione, in cui  racconta da par suo “L’ultima magia di Steve Jobs”.

“Il padre si chiamava Abdul Fatah e veniva dalla Siria, dalla terra di Saul l'esattore, delle cadute da cavallo, del misticismo che il figlio Steve avrebbe tradotto nel culto della sua Mela Mordicchiata, simbolo gentile ed eloquente della sua disobbedienza agli dèi dei computer, incarnata nell'iPad, la nuove tavola della legge secondo Apple. La storia del grande apostata dell' informatica divenuto a 55 anni, come spesso accade ai rivoluzionari, il papa di una religione chiamata Apple, di questo Steve Jobs che prese il cognome del padre adottivo e fondò una setta di ribelli contro il prepotente cattolicesimo di Big Blue Ibm e di Microsoft, non poteva che arrivare ieri al momento sfacciatamente evocativo della presentazione delle tavole, dei computer tablet, nel palazzo dell'Erba Buona (la menta) a San Francisco, dopo anni di attese, di anticipazioni, di novene, di scetticismo e di profezie. Perché tutto quello che circonda la vita, e la quasi resurrezione da un cancro al pancreas e poi da un trapianto di fegato, di Jobs, ieri apparso sempre più consunto e favolosamente ascetico per il lancio di questo iPhone gigante, dalla giovinezza fra veganismo integrale, guru, meditazioni zen, inevitabili pellegrinaggi in India, tradimenti di apostoli tramutati in Giuda nei consigli d' amministrazione, non è la biografia di un uomo di successo. Un Vangelo secondo Steve. Non è quindi un caso se i primi apostoli della verità di plastica, circuiti integrati, chips e silicio materializzati nella nuova creatura chiamata Macintosh, uomini come Guy Kawasaki, Mike Boich o Alain Rossmann si facevano chiamare, semiseriamente, gli evangelisti. Si sentivano scelti dal nuovo dio per diffondere il verbo e sciogliere gli schiavi degli altri computer dalle loro catene. La sua affiliazione dichiarata al buddismo aggiunge quell' elemento di inoffensiva mitezza universale che la sua personalità imperiosa e soprattutto la aggressività del suo marketing smentiscono. «L'egolatra massimo in un mondo di egolatri» lo definì la rivista Fortune. Un pirata, a volte, di idee altrui, come lui stesso si definì («è più divertente fare il pirata che arruolarsi in Marina», disse). Più che un monachino tibetano, Steve ricorda un templare lanciato alla ricerca del Sacro Graal. Da quando, appunto nella casa dei genitori adottivi, trascurando gli studi e le aule, smanettava con l'amico - poi tradito o traditore Steve Wozniak per assemblare kit di calcolatori con l'etichetta aziendale di "Homebrew", che significa "distillato in casa", fino alla fondazione della Apple Computers ispirata dalle mele nei frutteti dell' Eden californiano (il morso fu aggiunto nel timore che somigliasse a un pomodoro) il perfezionismo e l'ossessione di Jobs sono sempre stati gli stessi: non produrre un portatile, un desktop, un telefonino, un riproduttore di musica migliori dei concorrenti, come ogni azienda vuol fare. Ma creare qualcosa che cambiasse la vita dei fedeli, che mutasse il loro rapporto con l' universo, attraverso quegli oggetti. Che fosse una "rivelazione", come ha voluto essere la prima apparizione delle sue nuove tavole fatta ieri. Dal suo primo prodotto commerciale nel 1983, il computer battezzato "Lisa", forse o per coincidenza dal nome della prima figlia (ora ne ha quattro, e finalmente anche una moglie) con la quale aveva un pessimo rapporto paterno, alle "tavolette" della legge esibite alla tribù dei convertiti, molti, non tutti, degli oggetti sfornati dal campus di Cupertino in California hanno cambiato pezzi della nostra vita quotidiana. Il Macintosh, successore di Lisa, con il nome di una famosa qualità di mele asprigne, affermò il vangelo del GUI, la "Grafic User Interface", quel mondo di istogrammi, di icone e mouse che spodestarono il linguaggio arcano delle stringhe di comandi scritti. Gli iPod, i riproduttori di musica, sono stati venduti per 220 miliardi di pezzi (in realtà erano milioni, ndr), invano imitati da giganti invidiosi come Sony o l' eterna rivale Microsoft, e sono riusciti nel miracolo di convincere miliardi di consumatori a comperare, non soltanto a rubare o copiare, canzoni attraverso l'Apple Store. Il minicomputer da taschino o da borsetta, travestito da telefono cellulare, l'iPhone, del quale l'iPad - nome che a molte donne americane ricorda troppo il feminine pad, l'assorbente, come ha detto un anchor della rete Nbc - è l'ovvio figlio agli steroidi, ha superato il miliardo di vendite. Oggetti utili, importanti, innovativi, a volte rivoluzionari, anche se l' idea dell' interfaccia grafica, delle icone da cliccare con mouse fu in sostanza piratata dalla Xerox; e sempre bellissimi, fisicamente desiderabili, squisitamente disegnati e impeccabilmente fabbricati (a Taiwan soprattutto), per smentire uno dei dogmi dell'industria dei computer: che il mitico businessman, l'uomo o la donna d'affari, avrebbe disdegnato la carineria estetica da gagdets. Come tutte le religioni, anche il culto della Apple si incarna nel proprio profeta e ogni apparizione di Jobs smagrito dai malanni, spettrale nei propri maglioncini neri dolce vita, produce balzi e collassi nel corso delle azioni Apple, tanto ovvia è l'identificazione del Verbo con l'Uomo, del prodotto con il produttore. E mentre Steve arringava gli ex infedeli divenuti chiesa universale, il suo portafoglio privato di titoli, in una Wall Street incerta se credere o se essere scettica, superava il valore dei 5 miliardi di dollari. Nessuno fece mai bancarotta in America vendendo religione, disse un cinico”.