Lo scorso 15 settembre il Parlamento Europeo (con eccezione di pochi partiti, tra cui Fratelli d’Italia e Lega) ha adottato una risoluzione in cui condanna l’Ungheria in quanto non più una democrazia, ma un “regime ibrido di autocrazia elettorale”. Nella relazione si afferma che il rispetto dei valori sanciti dall'articolo 2 del Trattato sull’Unione Europea (tra cui la democrazia e i diritti fondamentali) in Ungheria si è ulteriormente deteriorato grazie ai "tentativi deliberati e sistematici del governo ungherese", aggravati dall'inazione dell'UE.
Tra i punti principali della relazione emergono la mancanza del pluralismo, l’approvazione di leggi che violano la libertà di espressione e i diritti fondamentali delle persone LGBTQIA+, ma anche una grave crisi per la privacy e il rispetto dei dati personali dei cittadini. Ciò già emergeva nel documento adottato nel 2018 dallo stesso Parlamento Europeo in cui si evidenziavano 12 aree di preoccupazione per la democrazia e i diritti in Ungheria.
Occorre farsi due domande, interconnesse: 1) Perché la privacy è a rischio in Ungheria? 2) Perché ciò costituirebbe addirittura un problema per la democrazia in Ungheria?
Partiamo dalla prima domanda. Nel documento del 2018 si leggevano due ordini di problemi (collegati): il primo era la comprovata violazione dell’indipendenza dell’autorità garante per la protezione dei dati in Ungheria. Il Parlamento, in seguito a una legge di riforma, aveva fatto dimettere l’allora presidente dell’autorità due anni prima della scadenza del mandato. Considerando che il garante deve essere un’autorità totalmente indipendente, protetta da qualsiasi interferenza da parte del potere politico, questo atto era stato giudicato dalla Corte di Giustizia dell’UE come una violazione della Direttiva sulla protezione dei dati personali.
I problemi non finiscono qui. Sia il documento del 2018 che quello del 2022 sono concordi nel condannare la totale inadeguatezza delle norme ungheresi che limitano la sorveglianza da parte dei servizi segreti sui cittadini. Già nel 2016 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo aveva duramente condannato l’Ungheria per questo. Le Nazioni Unite nel 2018 avevano confermato ciò, condannando l’inadeguatezza delle salvaguardie contro il potere arbitrario del governo di fare intercettazioni di massa e senza la possibilità di adeguati rimedi da parte dei cittadini (tra cui la mancanza di una autorità indipendente che autorizzi e controlli).
Il Report del 2022 non fa che aumentare la consapevolezza su questo problema: è stato provato che negli scorsi mesi ben dieci avvocati (tra cui il presidente dell’Ordine degli Avvocati ungheresi) e cinque giornalisti sono stati sottoposti a sorveglianza tramite lo “spyware” Pegasus sui loro dispositivi elettronici, con mera autorizzazione del Ministro della Giustizia. Ergo, nessun ente indipendente e nessun magistrato aveva autorizzato questa grave intrusione da parte dei servizi segreti, ma soltanto un membro del Governo di Orbàn. E ciò che fa ancora più scandalo è scoprire che tutto ciò era formalmente legale in base alle norme in vigore. Il problema, dunque, non è una violazione delle leggi ungheresi sulla privacy, ma l’inadeguatezza di quelle leggi stesse.
E andiamo ora alla seconda domanda. Perché ciò costituirebbe addirittura un problema per la democrazia in Ungheria?
Se non fosse già evidente da quanto detto finora, è bene sottolineare che la privacy e la tutela da intrusioni nella nostra vita privata sono un pilastro della democrazia. La democrazia, infatti, non è la mera possibilità di votare alle elezioni, a differenza di quanto sembra affermare Giorgia Meloni in difesa di Orbàn (“Orbàn ha vinto le elezioni, più volte anche con ampio margine, con tutto il resto dell'arco costituzionale schierato contro di lui, è un sistema democratico”). Al contrario, la democrazia è il rispetto di una serie di garanzie e contrappesi che permettono la salvaguardia dei diritti fondamentali dei cittadini in un Paese con elezioni libere e a suffragio universale e a prescindere dall’esito di quelle elezioni.
La privacy è una di queste garanzie fondamentali, da sempre e per tanti motivi: garantire la riservatezza permette di evitare minacce da parte del potere politico nei confronti della libertà di espressione e della libertà di stampa, ad esempio, ma anche della libertà di riunione, associazione e, dunque, della libertà dei cittadini di formarsi liberamente un pensiero politico critico (e di votare di conseguenza). Garantire la privacy e il rispetto dei dati personali aiuta a prevenire la discriminazione dei soggetti sulla base di caratteristiche sensibili e dunque aiuta a garantire il libero esercizio dei loro diritti (politici, civili, sociali). Evitare una raccolta massiccia di dati personali comportamentali permette di evitare campagne online di manipolazione mentale personalizzata degli elettori (come tristemente avvenuto, ad esempio, nel caso Cambridge Analytica).
In altri termini, in un mondo in cui sempre più “il potere sono le informazioni”, va limitato fortemente il potere di accumulare informazioni personali che possano essere usate contro i singoli cittadini, per ricattarli, controllarli, bloccarli, costringerli al consenso.
Dunque, no: la democrazia non è soltanto vincere le elezioni. La democrazia è un metodo, fragile, che vive di un equilibrio dinamico. La democrazia è una macchina complessa di cui la cabina elettorale non è che il motore, da usare con cura.